Gran Bretagna, alle elezioni politiche generali Johnson prende tutto. La strategia del laburista Corbyn porta il partito alla debacle

Di Pierpaolo Piras

Londra. “No ifs, No buts”. Queste le parole di Boris Johnson, primo ministro inglese, riferendosi alla fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea, pronunciate ai primi vittoriosi risultati delle elezioni politiche generali nel Regno Unito.

Un seggio in Gran Bretagna

I Tories guadagnano 364 parlamentari, i Laburisti scendono clamorosamente da 262 a 203, con distacco impensabile sino a pochi giorni fa, i liberaldemocratici da 12 a 11 e lo Scottish National Party (filoindipendentista scozzese) sale da 35 a 48 seggi.

Jeremy Corbyn, a capo del partito laburista, ha già annunciato le proprie dimissioni e, in ogni caso che non avrebbe guidato il Labour alle future elezioni.

Jeremy Corbyn

Nonostante i presagi non positivi della vigilia, Johnson ha scommesso ed ha vinto. A Westminster, i Conservatori hanno raggiunto una maggioranza come non si vedeva dai tempi del Governo di Margaret Thatcher nel 1987.

È apparso subito chiaro che Johnson è stato favorito anche da una parte dei cittadini tradizionalmente votanti per il “Labour”, laddove Johnson ha parlato di “terremoto politico”, come le regioni del Nord e del Centro dell’Inghilterra.

Boris Johnson

Con una maggioranza così schiacciante, e dopo tre anni e mezzo di inutili e interminabili guerriglie a Westminster, non ci saranno più incertezze e mezze scelte.

Il mandato degli elettori è lampante e irrefutabile: esso esclude l’ipotesi di un secondo referendum e ha fermamente deciso per una rapida fuoriuscita per il termine, già pattuito con l’Unione Europea, del 31 gennaio 2020.

È previsto che la procedura deve ancora concludersi per il voto della Camera dei Comuni, ma, con questa maggioranza conservatrice, l’approvazione dovrebbe essere relativamente facile da raggiungere.

Il tutto “No ifs, No buts”, dice Johnson: senza se e senza ma, appunto.

Jeremy Corbyn avrà modo di riflettere sui propri errori, imperdonabili nel Regno Unito più che altrove.

In campagna elettorale, Corbyn si è mostrato insicuro e ambiguo sul cocente problema della Brexit. Egli proponeva una fuoriuscita dall’Europa di tipo “morbido, preceduta eventualmente da un secondo referendum, mentre per Johnson doveva essere immediata e raggiunta senza indugi di sorta”.

L’ingenuità di Corbyn è salita per il suo radicale programma economico di sinistra (rinazionalizzazione di ferrovie e di varie forniture energetiche, acqua e ingenti investimenti nei servizi pubblici) che gli ha inimicato buona parte della classe media, in una nazione dove la sinistra ideologica, di simpatie comuniste, non ha mai seriamente attecchito.

Il Brexit Party di Nigel Farage non ha eletto alcun parlamentare. Semmai i suoi voti, per quanto minoritari, avrebbero potuto contribuire alla elezione di qualche seggio aggiuntivo per i Conservatori.

Insomma, in questa tornata elettorale, per certi versi rivoluzionaria negli ultimi 50 anni, è stata perennemente condizionata dalla diatriba sulla brexit e su che cosa si dovesse fare nel dopo.

Negli ultimi tre anni, è sempre stato chiaro che il dilemma non stava nel determinare quanti fossero per il “pro” o per il “contro”, quanto, semmai, per stabilire le procedure più pratiche da seguire per la sua realizzazione, ovvero nel modo meno dannoso possibile per l’economia inglese.

Boris Johnson, buon conoscitore dei suoi concittadini, ha evidentemente intuito le intenzioni degli elettori stabilizzando il loro voto sul suo partito conservatore.

Il laburista Corbyn, invece, è da tempo il più impopolare dei politici inglesi, con indici di disapprovazione nazionale superiori al 50% degli intervistati.

Da un punto di vista politico e nonostante la maggioranza schiacciante dei Tories alla Camera dei Comuni, c’è ben poco di semplice nel compito di governo che aspetta Johnson: sussistono significative differenze tra città e città, tra Scozia e Inghilterra e nel complesso mosaico delle forze politiche inglesi.

L’elettorato ha dato a Johnson un grande potere. Ora dovrà meritarselo e gli inglesi fanno pochi sconti.

Il quesito cruciale rimane lo stesso: cosa succederà dopo il benestare di Westminster sulla brexit?

La prima necessità sarà quella di stabilire un accordo commerciale con l’Unione Europea. I Tories hanno già chiarito che il Regno Unito lascerà l’unione doganale e il mercato unico, ponendo fine alla giurisdizione generale della Corte di giustizia europea. E basterà la presa d’atto in senso negoziale da parte dei restanti 27 Stati membri.

L’accordo finale dovrà avvenire entro giugno 2020. In caso contrario, si apre la prospettiva che il Regno Unito esca dall’Unione Europea senza alcun accordo.

Qualunque soluzione verrà adottata, Johnson si è più volte espresso che il suo governo non rinuncerà alla totale libertà di divergere dalle norme e vincoli economici e finanziari dell’UE.

In secundis, dovrà essere concordata la modalità di cooperazione con l’Unione Europea in tema di sicurezza ed applicazione delle leggi, come quella del mandato di arresto.

Resteranno da negoziare le regole in tanti settori, non ultimo quello dei residenti UE nella Gran Bretagna e viceversa.

I mercati non hanno perso tempo: già nel corso dei sondaggi la sterlina è salita con il più grande salto degli ultimi tre anni verso l’euro.

Donald Trump non sta nella pelle: si congratula vivamente con Johnson.

“Il Regno Unito e gli Stati Uniti saranno ora liberi di completare un nuovo accordo commerciale dopo la Brexit”, ha detto.

Al di là dei risultati concreti ed attuali, rimangono alcuni interrogativi.

Una volta portata a conclusione l’incubo della brexit, quale tipo di conservatorismo vorrà praticare il governo di Johnson? Quali saranno le priorità? La distanza dall’Unione Europea aumenterà?

Probabilmente, gli inglesi si metteranno d’accordo con tutti, ma alle loro condizioni!

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