Grande Guerra: maggio 1915, il lungo travaglio dell’interventismo italiano

Di Attilio Claudio Borreca*

Roma. Maggio 1915, il mese che avrebbe risolto tutte le nostre incertezze.

Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra

Il giorno 5, dallo scoglio di Quarto, commemorando l’anniversario dell’imbarco dei Mille davanti a una folla di interventisti, Gabriele D’Annunzio tenne un discorso di cui forse nessuno aveva capito nulla ma che fu applaudito in modo furibondo.

Più tardi si disse che delle “radiose giornate di maggio” quella era stata la più determinante e che le parole ermetiche del poeta avevano suscitato un’emozione capace di mettere in moto la Storia.

Probabilmente se D’Annunzio lì a Quarto invece di arringare il suo pubblico si fosse limitato a fare un bagno, l’entrata in guerra dell’Italia non sarebbe stata anticipata o differita di un solo minuto.

IL PATTO DI LONDRA

Il Patto di Londra che ci legava alle sorti belliche dell’Intesa era stato infatti già sottoscritto il 26 aprile con la clausola che l’ingresso italiano nel conflitto non poteva essere procrastinato oltre la scadenza di un mese.

Patto_londra

Il 26 aprile il Patto, dunque, e il 23 maggio la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria.

I conti tornano anche senza gli atti di insofferenza degli interventisti e le numerose manifestazioni che segnarono quel mese.

Quegli episodi valsero soltanto a creare la necessaria cornice di un favore pubblico, di una sollecitazione popolare, a una decisione che invece era stata già presa in modo ineluttabile. In realtà l’interventismo potè contare soltanto sull’appoggio di una minoranza, anche se si trattava di un gruppo minoritario eccezionalmente vivace e attivo.

Ancora dieci mesi prima ci stavamo preoccupando di scindere le nostre responsabilità da quelle dell’Austria nell’aggressione alla Serbia confermando però implicitamente che la nostra sarebbe stata una neutralità benevola verso l’Impero germanico e quello austriaco ai quali continuavamo ad essere legati nel Patto della Triplice alleanza.

COSA FARE DELLA TRIPLICE INTESA?

Adesso invece non solo avevamo appena respinto la Triplice, ma entravamo in guerra al fianco di quelli che, dieci mesi prima, avrebbero dovuto rappresentare i nostri nemici.

Perché?

Un perché nitido e persuasivo non si ritrova a voler esaminare tutto quel travagliato intervallo di tempo nel corso del quale si definirono i nostri orientamenti.

Per lunghi mesi la politica italiana fu caratterizzata da una certa responsabile volontà di tenere il Paese al di fuori della tragedia e da un calcolo, non privo di opportunismo, per entrare eventualmente in guerra al momento giusto e con l’alleato più forte.

L’alleanza con l’Intesa, per esempio, avrebbe dovuto essere condizionata da quelle stesse concessioni che, venti anni dopo, sarebbero diventate le tardive rivendicazioni territoriali di Benito Mussolini: la Savoia e la Corsica, Nizza, Malta e la Tunisia.

Soldati italiani in un momento di una battaglia

L’adesione alla Triplice poteva essere invece confermata se ci fossero state garantite le province di Trento e Trieste, il confine al Brennero, la Venezia Giulia e la Dalmazia, nonché una condizione di incontrastata supremazia nell’Adriatico.

Saremmo scesi in guerra, insomma, al fianco di chi ci avesse promesso di più.

Quando Luigi Cadorna fu nominato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, fu interpellato dal Governo: entro quanto tempo avrebbe potuto portare a termine la mobilitazione generale e schierare le forze al fronte? “Quale fronte – aveva legittimamente chiesto il Generale – a nord-ovest, cioè verso la Francia o a nord-est, cioè verso l’Austria?

La sorprendente risposta fu “si vedrà”.

Nel Paese esisteva lo stesso disorientamento. Eravamo una nazione giovane, costituita da appena cinquanta anni, prevalentemente contadina, certo la più debole fra le grandi potenze impegnate nel conflitto.

Non godevamo nei circoli militari internazionali un grande prestigio: Custoza e Lissa erano abbastanza vicine ma ancor più lo era Adua, che si collocava appena diciotto anni prima e, nell’interpretazione approssimativa che gli era stata data in Europa, assumeva il disegno dell’inconcepibile sconfitta di un esercito ben armato di fronte a bande di abissini che impugnavano archi e lance.

L’ULTIMATUM ALLA SERBIA E LO SCOPPIO DELLA GUERRA

La notizia dell’ultimatum alla Serbia e dello scoppio della guerra aveva colto in contropiede il nostro governo costituito pochi mesi prima per realizzare un programma che conteneva delle emergenze ben più modeste.

A Roma, il ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano e il capo del Governo Antonio Salandra si erano febbrilmente consultati per verificare se esistessero gli estremi per sottrarsi al meccanismo automatico di quell’ingrata alleanza.

La Bandiera italiana sul luogo della battaglia

Strano comportamento dei due uomini di Stato convinti triplicisti e tesi subito a cercare un’occasione per sfuggire agli impegni della stessa Triplice!

Eppure, fin da quei giorni, anche alla coscienza dei più fervidi sostenitori della nostra alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria doveva affacciarsi il dubbio della non opportunità di una guerra condotta al fianco degli Imperi Centrali.

Il popolo italiano non faceva distinzione tra Germania e Austria-Ungheria: era il mondo tedesco e basta.

I contingenti di truppe che la Germania ci sollecitava fin dai primi giorni del conflitto per impegnarli in Alsazia contro i francesi sarebbero stati costituiti da militari che, fin dagli anni delle scuole elementari, avevano imparato come la storia d’Italia dal 1821 al 1866 fosse stata esclusivamente storia anti-austriaca e come tutto il Risorgimento si fosse compiuto combattendo contro Francesco Giuseppe l’imperatore al quale, ora, avremmo dovuto affiancarci.

La guerra era istintivamente invisa al popolo ma la guerra la fianco degli austro-tedeschi sarebbe stata ancor più odiosa.

Questa era dunque l’opinione prevalente fatta esclusione per certi gruppi minoritari fra i quali si distinguevano i circoli cattolici più vicini al Vaticano, naturalmente orientati per l’amicizia con la cattolicissima Austria e determinati gruppi nazionalisti i quali ritenevano più conveniente allearci subito con le potenze che apparivano visibilmente più forti.

E tra i sostenitori di questo antistorico allineamento al fianco delle potenze centrali vi era anche Edoardo Scarfoglio, il principe del giornalismo italiano, che rivelava in quei giorni, a differenza del direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, una singolare deviazione di visuale politica.

Ma non c’era da meravigliarsi, d’altronde tutto il Paese era assolutamente impreparato, classe politica compresa, di fronte alle ragioni e alle prospettive della guerra.

Non si aveva neppure una nozione esatta dei fronti sui quali si stava combattendo, si confondevano i rumeni con i ruteni, gli slovacchi con gli sloveni, avevamo delle timide rivendicazioni sulla Dalmazia ma forse non sapevamo neanche dove era!

Il capo del governo aveva coniato un motto, che l’Italia doveva chiudersi in un “sacro egoismo” e probabilmente non sbagliava: l’astensione dell’Italia dal conflitto rappresentava per la causa austro-tedesca l’impossibilità di disporre di un milione di combattenti, almeno mille bocche da fuoco e un centinaio di navi da battaglia, e comunque l’Italia, con la sua collocazione al centro delle parti in lotta, era davvero in condizione di far pagare molto caro il proprio determinante intervento al fianco dell’uno o dell’altro belligerante.

Quando si decise ad entrare in guerra, invece, lo si fece nel momento forse meno opportuno e in base alle più modeste promesse.

Ma se la diplomazia tedesca si adoperò sempre con coerenza per attirare l’Italia al fianco delle potenze centrali, la diplomazia austriaca non mosse mai nessun passo considerevole sul terreno delle concessioni.

L’Italia chiedeva Trento e Trieste e loro rispondevano con l’offerta di Valona in Albania dove, peraltro, saremmo comunque sbarcati quello stesso anno 1914, senza il benestare dell’Austria.

La Germania invece ci avrebbe concesso tutto un po’ perché in definitiva si sarebbe trattato di spese a carico dell’Austria.

Dalla parte dell’Intesa, naturalmente, le promesse erano ancor più facili perché si trattava di vendere la pelle del nemico.

D’accordo per Trento e Trieste, d’accordo per il confine al Brennero, per le rettifiche di frontiera sei nostri possedimenti in Africa, per il dominio sul Dodecaneso e sulla Dalmazia, ferme restando però certe garanzie per gli allogeni slavi tanto per non scontentare lo zar il quale, bene o male, era entrato in guerra appunto per proteggere un paese slavo affacciato sull’Adriatico.

Non si possono riassumere giorno per giorno dieci mesi di attesa ma si può dire che ognuno di quei giorni ebbe una sua caratteristica e una sua importanza.

Possiamo chiederci: oltre alla passione irredentistica, quanta parte ebbero i giochi degli interessi esterni ed interni nella nostra determinazione di guerra.

Contro la guerra si erano schierati per mesi giornali di tiratura forse relativa ma di grandissimo prestigio come l’Avanti di Mussolini, la Stampa del senatore Frassati a Torino, la Tribuna che Olindo Malagodi dirigeva a Roma.

Contro la guerra erano i socialisti, un’ala dei cattolici, la maggioranza parlamentare che, incerta, faceva tuttavia capo a Giolitti il quale aveva scritto che “parecchio si sarebbe potuto ottenere senza la guerra”.

Per l’intervento invece finirono per ritrovarsi, probabilmente contro le loro stesse convinzioni iniziali, Antonio Salandra e il nuovo ministro degli Esteri Sidney Sonnino, una parte rilevante del Senato, il Ministero della Guerra, il Corriere della Sera, gli studenti e i nazionalisti, i socialisti che facevano capo a Bissolati e a Bonomi, una parte dei repubblicani e tutti i radicali.

Ma non erano ancora maggioranza e non lo sarebbero stati neppure quando, il 26 aprile, l’Italia firmò a Londra il Patto che la vincolava a entrare in guerra.

Alla vigilia del suo ingresso nel conflitto il Paese si era trovato senza governo per le dimissioni del Salandra anche se respinte dal Re, e si entrò in guerra dunque nel momento più discutibile, quando le sorti dell’Intesa, floride fino ai primi di maggio, si erano improvvisamente capovolte per la sconfitta dei Russi a Gorlice: una disfatta che aveva portato gli austro-tedeschi a riguadagnare a oriente un territorio profondo come una buona metà dell’Italia.

La sconfitta russa, inoltre, aveva rivelato la paurosa disorganizzazione dell’esercito dello zar.

Il 21 aprile, inoltre, pochi giorni prima della firma del Patto di Londra, ad Ypres i tedeschi avevano impiegato per la prima volta i gas asfissianti falciando gli inglesi a migliaia, un nuovo orrendo incubo di quella guerra in cui stavamo per gettarci.

Il fronte serbo poi, che avrebbe dovuto muoversi contemporaneamente a noi per stringere, insieme con i russi, l’Austria in una morsa, non diede alcun cenno di vita.

Si spiegherà poi che i serbi avevano saputo, dal ministro russo Sazonoff, degli accordi del Patto di Londra e sapevano che l’Italia aveva avanzato rivendicazioni sulla Dalmazia, cioè in casa loro. Eravamo quindi degli alleati quasi più invisi dei nemici. Bisogna proprio riconoscere che nella primavera del 1915, le sorti dell’Italia non erano in mano a un Cavour!

L’ITALIA ENTRA IN GUERRA

Entriamo in guerra dopo aver subito il 13 gennaio il disastroso terremoto di Avezzano che aveva fatto 30 mila morti ed aveva pesantemente salassato le nostre possibilità finanziarie.

Avevamo condensato nel Veneto 400 mila uomini ma solo due Corpi d’Armata su 17 erano in piena efficienza.

Un’azione di fuoco

Gli Austriaci, invece, forti della recente vittoria sul fronte orientale e rabbiosi di fronte all’attacco italiano che considerano il più oltraggioso dei tradimenti, riorganizzarono rapidamente le loro truppe.

Portarono il confine militare alla linea che correva dalla testa di ponte di Tolmino a Gorizia e al ciglio del Carso.

Il Generalissimo Franz Conrad von Hötzendorf, Capo di Stato Maggiore dell’esercito Austro-Ungarico, disse ai suoi uomini che non un metro di terreno doveva essere ceduto agli Italiani senza lottare.

Il Generalissimo Franz Conrad von Hötzendorf

Conrad non può disporre, quando i nostri alpini abbattono i pali di confine, che di 36 battaglioni, una modesta forza di copertura, ma in due settimane quei battaglioni salirono a 122.

Si militarizzarono gli operai addetti ai lavori di difesa e c’erano fucili per tutti contro gli odiati “Welschen” (termine utilizzato per indicare gli Italiani); gli Schutzen, i famosi tiratori del Tirolo, lustrarono le loro precise carabine e si formarono battaglioni di volontari, si mandarono in linea gli uomini dei depositi territoriali.

Nel Tirolo e nel Vorarlberg (uno dei novi stati federali dell’Austria e il più occidentali di essi) si chiamavano alle armi giovani al disotto dei 18 anni e anziani al di sopra dei 50: c’era un clima di guerra santa contro il nemico di sempre: l’Italia.

E’ in queste condizioni e con queste prospettive che i nostri fanti varcarono il confine e attaccarono l’impero Austro-ungarico, il 24 maggio 1915.

La guerra alla Germania verrà dichiarata, invece, più di un anno dopo, il 28 agosto 1916. Il nostro ministro degli esteri Sidney Sonnino coltiverà fino all’ultimo l’illusione di poter contenere la nostra partecipazione al conflitto nei limiti di una guerra “privata” tra noi e l’Austria.

Ma il 24 maggio è comunque guerra.

Le nostre truppe si spingevano avanti tra le vallate della Carnia e del Cadore verso il Monte Nero, verso Gorizia, verso Monfalcone e Trieste, verso il tragico Isonzo, in un terreno ingrato, contro un nemico forte e fortificato, con i nostri soldati frettolosamente addestrati e filtrati attraverso una mobilitazione che per la conformazione geografica del Paese si era rivelata lunga e difficile, tanto da sottrarci tutti i vantaggi della sorpresa.

Andavamo contro le fortificazioni che l’Austria aveva costruito da tempo contro di noi.

Decine di migliaia dei nostri soldati non videro la fine di quell’anno e oltre mezzo milioni di essi avevano già sul capo il gelido asterisco della morte.

*Generale di Divisione (ris) 

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