Grande Guerra: Ripensare Caporetto e rileggere la storia ad oltre 100 anni dal Primo conflitto mondiale

Di Anselmo Donnari*

ROMA. Il detto popolare “E’stata una Caporetto”, nell’immaginario collettivo, evoca – con riferimento all’infausto evento della 1^ Guerra Mondiale – una situazione drammaticamente compromessa, una totale disfatta. Nulla di più inesatto, nulla di più infondato.

La ritirata delle truppe italiane a Caporetto

Come ampiamente riconosciuto a 100 anni dalla Grande Guerra, Caporetto è stata si una grave sconfitta ma non una disfatta, non un disastro militare completo e irreparabile; per essere più chiari non una Waterloo, non una Stalingrado  o – per restare in casa nostra – non una Vittorio Veneto, quella si una pesante disfatta per l’Impero Austro-Ungarico!

Il cedimento del fronte (24 ottobre 1917) faticosamente raggiunto dopo ben 11 battaglie sull’Isonzo – in un settore limitato (2^ Armata), tra Tolmino e Plezzo – è stata solo una fase, pur tragica e luttuosa, della 12^ Battaglia sull’Isonzo, cui è seguito il ripiegamento del Regio Esercito verso i ponti sul Tagliamento, con il decisivo intervento delle retroguardie e delle scarse riserve che hanno continuato a combattere, sacrificando le loro vite per arginare il nemico; nemico definitivamente arrestato sulla linea Grappa – Piave, dove 35 Divisioni italiane, pur stanche e depresse dopo la ritirata, respinsero 55 Divisioni austro-tedesche.

Ciò costituì, non solo la conclusione dell’offensiva nemica sul fronte italiano, ma anche il fallimento del piano degli Imperi Centrali di giungere ad una fine vittoriosa dell’intero conflitto mondiale.

Soldati italiani nella Grande Guerra

Le cause della sconfitta di Caporetto sono state spiegate dalla storia e dalla Commissione d’inchiesta, istituita nel gennaio 1918, per individuare la responsabilità di quanto accaduto nel settore della 2^ Armata.

Una miriade di fattori avversi si accanì su quel tratto di fronte, forse il più fragile e il più provato dei 650 chilometri che correvano dal Trentino alla foce dell’Isonzo.

Innanzitutto il nemico, conscio di non poter reggere una  ulteriore spallata sull’Isonzo, aveva chiesto rinforzi alla Germania, rinforzi affluiti con truppe di èlite (ben 7 Divisioni d’Assalto, delle 11 di cui disponeva l’Esercito tedesco) e tattiche innovative (un esempio, l’infiltrazione dell’allora giovane Tenente Erwin Rommel che in poco tempo giungerà sino a Longarone).

 

Erwin Rommel

E poi il Comandante in Capo, Generale Luigi Cadorna, la  2^ Armata e i suoi mediocri Alti Ufficiali.

Il Generale Luigi Cadorna

 

La figura di Cadorna risulta alquanto controversa; di certo non seppe cogliere la “stanchezza morale” dei suoi uomini in quel tratto di fronte, ma non esitò a scaricare su di loro la colpa del rovescio perchè “...vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico…. (Bollettino del Comando Supremo, 28 ottobre 1917).

Questo un vero Capo non deve farlo mai.

Non sarà miglior stratega il Comandante della 2^ Armata, Generale Luigi Capello,  che – nella presunzione di passare ad una rapida controffensiva – non attua  le predisposizioni difensive emanate da Cadorna.

Il Generale Luigi Capello

Per non parlare del suo sottoposto Generale Pietro Badoglio, Comandante del  XXVII Corpo d’Armata. Alla vigilia di Caporetto va a dormire dopo aver disposto che  l’ordine di aprire il fuoco ai suoi 400 cannoni di medio e grosso calibro sarà dato da lui personalmente.

Il Generale Pietro Badoglio

Alle 2.00 del 24 ottobre, la prima valanga di fuoco dell’artiglieria austro-tedesca trancia i cavetti telefonici, Badoglio sarà isolato e i suoi cannoni resteranno in silenzio (e dire che Comandante della sua artiglieria era il Colonnello Cannoniere!).

E si potrebbe continuare con i Generali Cavaciocchi,  Bongiovanni….tutti non all’altezza della situazione.

Ma cosa accadde a gran parte degli Ufficiali e soldati in prima linea?

Il luogo comune secondo cui le truppe si sarebbero battute poco e male, arrendendosi alla prima occasione,  se generalizzato, risulta falso e offensivo, soprattutto nei riguardi di quegli uomini che lottarono e morirono  nelle loro trincee e per quelli che, nel ripiegamento, seguirono la stessa sorte cercando di frenare il nemico.

Quanto alla fuga in massa riportata da molti testimoni, è stato appurato che a scappare verso le retrovie presi dal panico furono i più impreparati al combattimento ravvicinato, soldati che verosimilmente non avevano mai effettuato un assalto alla baionetta, come scritturali nei comandi, portaordini (talvolta fuggiti con la bicicletta d’ordinanza), personale del vettovagliamento, magazzinieri, infermieri degli ospedali, artiglieri delle batterie improvvidamente lasciate a ridosso della prima linea (l’artiglieria non difende il terreno; all’arrivo del nemico, gli artiglieri sfilano il percussore dalle culatte dei cannoni per renderli inutilizzabili e scappano).

Ma non mancarono certo episodi di valore e di eroismo; lo testimoniano le 15 medaglie d’oro – in gran parte alla memoria – e le oltre 80 d’argento guadagnate da uomini e reparti, da Caporetto (24 ottobre) al Piave (9 novembre).

Una efficace sintesi del comportamento degli Italiani la traccia lo storico Paolo Gaspari nel suo libro “Le bugie di Caporetto” .

La copertina del libro

Nel sostenere che a Caporetto accadde esattamente il contrario di quello che finora si è pensato, conclude: “Gli Italiani a Caporetto combatterono sempre e persero perchè in inferiorità di numero, di fuoco, di armamento e di comando. Tra perdere con onore e perdere con disonore, c’è una bella differenza. C’è il senso di sé di un popolo”. E gli Italiani fecero con onore il proprio dovere, con le forze ed i mezzi di cui disponevano.

Quando ero un giovane Capitano, sono stato colpito – e lo sono ancora – dalla figura del Capitano Ettore Lajolo, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria per i fatti d’arme di Pozzuolo del Friuli (29-30 ottobre 1917).

Un momento della battaglia di Pozzuolo del Friuli

Ricordo che, ogni qual volta mi trovavo a passare  davanti alla palazzina a lui intitolata, il pensiero – istintivamente – correva alla sua ultima travolgente carica.

Per conoscere il Capitano Lajolo, dobbiamo seguire la 2^ Brigata di Cavalleria mentre risale la corrente delle truppe che ripiegano per andare incontro all’onda nemica che dilaga nella pianura friulana; ha ricevuto il compito di sbarrare la strada al nemico a Pozzuolo del Friuli, di occupare e mantenere quel  nodo stradale a tutti i costi per proteggere il ripiegamento della 3^ Armata dal Carso (l’Invitta  al Comando del Duca d’Aosta).

La Brigata inquadra i Reggimenti “Lancieri di Novara” e “Genova Cavalleria”, affratellati da innumerevoli battaglie. Il Capitano Lajolo comanda il 4° Squadrone di “Genova”, lo stesso del fratello Oreste caduto l’anno prima sul Carso.

A Pozzuolo del Friuli hanno luogo furiosi combattimenti; la Brigata resiste alla pressione delle soverchianti forze tedesche e austro- ungariche. Gli storici noteranno che mai si registrarono una così elevata concentrazione di atti eroici, forse  in gran parte sconosciuti, in poco più di 24 ore.

Tra cariche di alleggerimento, sbarramenti a difesa, ripiegamenti, contrattacchi, la Brigata perde oltre la metà degli effettivi, ma assolve il compito.

Il Comandante, Generale Giorgio Emo Capodilista,  vistosi oramai circondato, ordina ai superstiti di rimontare a cavallo, spiegare gli stendardi, e rompere l’accerchiamento.

Il Generale Giorgio Emo Capodilista

Il Capitano Lajolo copre la ritirata al comando del suo squadrone; vistosi inseguito da motomitragliatrici austriache, arresta il reparto, fa fronte al nemico e grida ai suoi uomini “Quando Genova Cavalleria vede il nemico, non gli volta le spalle, ma si calca l’elmetto e gli galoppa sopra!”.

E così fu fatto. Qualche ora dopo solo 2 o 3 cavalli scossi, senza cavaliere, torneranno indietro al Reggimento. Il Capitano Lajolo, un esaltato? No, semplicemente un  Patriota, un Grande Patriota con il senso dell’onore e del dovere.

Non diciamo più ”è stata una Caporetto”, non usiamo più questa espressione né seriamente, né ironicamente; i nostri Caduti, i nostri Eroi non lo meritano.

* Generale di Divisione di Cavalleria (ris) dell’Esercito italiano

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