Guardia di Finanza: maxi-operazione congiunta con Carabinieri e Polizia di Stato. Arrestati 53 soggetti collegati alla cosca di ‘ndrangheta dei Pesce. Disposto un sequestro preventivo di beni per 8.500.000 euro

Di Dario Gravina

Reggio Calabria. È la convergenza di due differenti operazioni denominate “Handover” e “Pecunia olet” rispettivamente condotte dalla Polizia di Stato nonché dalla Guardia di Finanza e dai Carabinieri e che, dalle prime ore di stamani, vedono impegnati numerosi uomini nell’esecuzione di 53 arresti (dei quali 44 in carcere e 9 ai domiciliari), tutti accusati – a vario titolo – di associazione mafiosa, detenzione, porto e ricettazione di armi, estorsione, favoreggiamento personale aggravato dal movente mafioso, nonché traffico di sostanze stupefacenti.

L’imponente dispiegamento di militari della GDF e dei CC e degli agenti della PS, è coordinato dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria nell’ambito di precedenti indagini che avevano già evidenziato i business criminali messi in piedi dalla cosca di ‘ndrangheta dei Pesce, attiva nella piana di Gioia Tauro (RC), nonché comportato diversi arresti eseguiti nei confronti di esponenti di spicco del medesimo clan e di loro fiancheggiatori.

Dopo quei duri colpi, i Pesce erano comunque riusciti a riorganizzare le trame dei loro affari illeciti nonché a garantire la latitanza del figlio 29enne del boss Vincenzo Pesce (alias “u’Puccio”), senza che questo fosse costretto ad abbandonare il territorio, sul quale la sua famiglia esercitava forti influenze sulle attività imprenditoriali ivi presenti.

In accordo con altre famigerate cosche della criminalità organizzata calabrese, come i Piromalli di Gioia Tauro (RC) ed i Bellocco di Rosarno (RC), i Pesce erano dunque riusciti a riprendere in mano il controllo degli appalti come le attività della criminalità di strada, senza trascurare una capillare raccolta di denaro attuata attraverso il classico “pizzo” e destinata a finanziare le famiglie degli appartenenti alla cosca detenuti in carcere oppure costretti alla latitanza. Un vero e proprio “sistema” di riscossione, dalle modalità chiaramente estorsive, dove a pagare senza protestare erano commercianti ed anche agricoltori, ognuno dei quali soggetto ad un vero e proprio “listino” peraltro ritrovato dagli investigatori della Polizia di Stato.

Stemma SCICO – GDF

Parallelamente a tali attività d’indagine, lo SCICO della Guardia di Finanza (Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata) ed il ROS dei Carabinieri (Raggruppamento Operativo Speciale), indagavano sui rapporti d’affari intercorrenti tra i Pesce ed alcuni imprenditori siciliani operanti nel settore della grande distribuzione, quest’ultimi interessati ad allargare la portata dei loro commerci anche in Calabria ma che, anche per garantirsi una dovuta “tranquillità”, erano entrati in diretto contatto con i citati ‘ndranghetisti i quali, facendo leva sul loro indiscusso potere mafioso, avrebbero garantito la piena funzionalità della filiera distributiva nel settore degli alimentari, per di più con il progetto di realizzare altri 14 centri di distribuzione in tutta la regione.

Per i territori non ricompresi sotto l’egemonia di Pesce, gli stessi imprenditori siculi si erano premuniti di corrispondere quanto “dovuto” alle cosche della zona come quella dei Cacciola (anche questa operante sull’area rosarnese).

Da rilevare nella medesima indagine anche il ruolo di primo piano assunto da un commercialista di Rosarno, che gli inquirenti identificano come il vero e proprio referente dei Pesce sull’affare; in parole semplici il classico “colletto bianco” impegnato nel dissimulare con ogni mezzo i patrimoni illeciti derivanti da tali attività mafiose, a fungere da raccordo con il mondo dell’imprenditoria colluso in tali business illeciti, a riscuotere direttamente le somme di denaro corrisposte a seguito di richieste estorsive ma anche pronto a mettere a disposizione il proprio studio professionale per consentire i vari summit tra ‘ndranghetisti.

Un’attività condotta su larga scala, dove il clan Pesce era dunque diretto gestore d’ogni possibile forma di guadagno ottenibile sul proprio mandamento in accordo con le altre famiglie di ‘ndrangheta, e dove imprenditori collusi avevano trovato il modo di allargare il campo dei propri commerci sbaragliando ogni possibile forma di concorrenza, proprio grazie al “patrocinio” criminale con il quale erano entrati in affari.

Per questa parte dell’inchiesta, l’esito è stato invece quello del sequestro patrimoniale di tre società con annessi capannoni con sede a Rosarno il cui valore, come accennato sopra, si attesta in 8 milioni e 500mila euro.

 

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