Di Dario Gravina
Venezia. Una perquisizione locale disposta dalla Procura della Repubblica di Pordenone ed il soggetto perquisito che, al sopraggiungere dei finanzieri, tenta un’ultima disperata mossa per evitare l’incriminazione gettando dalla finestra un hard disk ed uno smartphone, senza però sapere che in queste operazioni di polizia giudiziaria c’è sempre qualcuno con gli occhi rivolti opportunamente all’esterno del luogo nel quale si ricercano le prove di un reato.
È stato così, dal recupero dei due dispositivi finiti in un cespuglio, che si è scoperchiata una maxi-frode fiscale internazionale avvenuta nel settore del commercio di rottami di ferro e di bancali in legno, nella quale risultano coinvolti imprenditori italiani ed esponenti della criminalità cinese allo scopo di frodare il Fisco e conseguire in tal modo ingenti capitali illeciti.
Sulla base di quanto ricostruito dagli investigatori della Guardia di Finanza, il sodalizio criminale in questione, radicato nella zona di Portogruaro (VE) ma con saldi agganci nella criminalità cinese presente in Veneto, si era specializzato nel settore del riciclaggio di denaro proveniente da evasioni fiscali, a loro volta sortite da un ben molto ben congeniato sistema fraudolento realizzato su scala internazionale.
Detto sistema prevedeva infatti l’emissione di una notevole quantità di fatture per operazioni inesistenti prodotte da società c.d. “cartiere”, ovvero di compagini imprenditoriali fittizie, esistenti solo sulla carta ma di fatto prive d’una reale struttura.
I “clienti” dell’organizzazione in questione erano imprenditori italiani dai quali ricevevano grosse quantità di denaro su conti correnti intestati a società est-europee, a cui capo erano stati piazzati gli immancabili “prestanome”.

Attività d’ufficio della Guardia di Finanza
Le fatture di comodo, nello specifico, venivano emesse nei confronti di aziende nazionali con lo scopo di giustificare i trasferimenti di denaro in territorio estero, formalmente dovuti come corrispettivo di operazioni commerciali o di prestazioni di servizi nella realtà mai avvenuti.
I soldi, una volta accreditati sui conti correnti gestiti dall’associazione criminosa, venivano a loro volta immediatamente trasferiti attraverso bonifico presso una banca di Shanghai (Cina), ovviamente su conti nelle disponibilità di loro fiancheggiatori.
Il buon esito delle operazioni bancarie concluse in Cina veniva successivamente comunicato ai referenti in Italia dell’organizzazione, ed è a questo punto che entrava in gioco la criminalità cinese la quale, attraverso propri uomini di fiducia residenti nel padovano, incassava in luoghi prestabiliti i contanti delle somme bonificate chiaramente decurtate della percentuale pattuita per l’illecito “servizio” reso.
Il restante contante veniva poi suddiviso tra gli imprenditori italiani coinvolti nella frode i quali, all’inizio del meccanismo truffaldino in questione, avevano ricevuto e pagato le fatture emesse dalle finte società fornitrici estere, anche in questo caso decurtate della percentuale spettante all’organizzazione.
I vantaggi, derivanti da attività criminali tanto articolate quanto insidiose per le modalità con le quali erano perpetrate, erano diversi ed assai vantaggiosi per i diversi “attori” della vicenda.
Gli indagati hanno infatti intascato consistenti percentuali di guadagno grazie a transazioni finanziarie realizzate ad hoc e per di più celandosi dietro ad inconsapevoli prestanome.
Gli imprenditori italiani che utilizzavano le false fatture e che contabilizzavano costi d’impresa mai sostenuti, i quali si sono così potuti precostituire fondi occulti da impiegare per spese personali, per alimentare altri circuiti evasivi tramite acquisti realizzati “in nero” o per avvalersi di manodopera irregolare.
La criminalità cinese che ha così potuto esportare senza troppi rischi, nonché beneficiando di vantaggiosi meccanismi di compensazione, ingenti capitali provenienti da evasioni fiscali e da altre attività illecite.
Il tutto per un giro d’affari che la Guardia di Finanza quantifica in una cifra che supera i 60.000.000 di euro.
L’operazione, che al momento vede ancora in corso di esecuzione 11 perquisizioni nelle provincie di Venezia, Padova, Treviso e Udine, ha intanto comportato l’arresto di 3 soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere ed una misura cautelare domiciliare emessa nei confronti di un altro indagato, a cui si aggiunge il sequestro – per equivalente – di denaro, beni mobili ed immobili, per un ammontare che sfiora i 10 milioni di euro e che l’Autorità Giudiziaria ritiene il diretto provento di tali attività criminose.
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