GUARDIE DOGANALI DI MESSINA: LA STORIA DELL’ISPETTORE GIULIO MARTINETTI E LA REPRESSIONE DEI FALSI MONETARI IN UNA CRONACA DEL 1864

Di Gerardo Severino*

MESSINA (nostro servizio particolare). La falsificazione delle monete è un fenomeno molto antico e le sue origini si perdono, come si suole dire, “nella notte dei tempi”.

Se le prima forma di cartamoneta, intesa quale bene impiegato come intermediario negli scambi sotto forma di mezzo di pagamento accettato da tutti, risalirebbe – almeno secondo alcuni storici – a circa 2000 anni prima della nascita di Cristo, mentre la moneta metallica, a parte le risultanze archeologiche dall’antico Egitto, verrebbe datata verso la fine dell’VIII secolo avanti Cristo, non possiamo essere più precisi riguardo ai primi tentativi di contraffazione.

Le prime testimonianze che documentano tale forma di reato ci portano comunque al periodo classico, allorquando, nell’antica Grecia, il fenomeno non solo era già conosciuto, ma contemplato nel “diritto penale attico”, esattamente fra le cosiddette “azioni pubbliche” con le quali si perseguiva, mediante un processo di norma accusatorio, lo “spaccio di monete false”, oltre alla corruzione dei magistrati, il furto e l’adulterio.

La fabbricazione clandestina di monete interessò gran parte dei popoli ove tale forma di pagamento era in uso e soprattutto la grande Roma, ove, a partire dal 269-268 avanti Cristo, s’iniziò a coniare le prime monete d’argento, le didramme di tipo greco e con la leggenda “romano”.

Anche la futura capitale dell’Impero non fu estranea alla falsificazione, per quanto il sistema di vigilanza, affidato ai triumviri monetales operanti presso la Zecca di Roma, che era annessa al tempio di Giunone Moneta (dalla quale deriva il termine), ovvero ai magistrati fosse molto efficace, potendo anche contare su un sistema sanzionatorio alquanto duro.

Giunone Moneta

La falsificazione non venne mai meno durante i periodi storici e ve ne è traccia in molti trattati giuridici e nelle cronache locali.

Essa fu molto attiva nel Medioevo in quasi tutte le odierne regioni italiani, un tempo suddivise in migliaia di feudi e principati vari, spesso in lotta fra loro, sia dal punto di vista militare che commerciale. Ecco perché il fenomeno assunse, a partire proprio da quel contesto, una peculiare valenza strategica, potendo utilizzare i forti quantitativi di moneta falsa per inflazionare il nemico sia sul fronte interno che esterno.

Le tecniche erano le stesse utilizzate dalle zecche ufficiali e cioè mediante colatura in una forma, ovvero mediante “battitura” di una lega più scadente, mentre la colorazione simile all’originale era ottenuta mediante un deposito metallico o con altri metodi chimici.

La fabbricazione e lo spaccio delle monete false continuarono ad influenzare la vita quotidiana delle nostre genti per i secoli successivi, interessando da vicino anche gli Stati preunitari, gli “antichi stati italiani”, come verranno definiti dopo l’Unità nazionale del 1861.

Perseguiti dai Codici penali di tutti i Regni, Granducati e Ducati, ivi compreso lo Stato Pontificio, ove il fenomeno della fabbricazione di monete false era particolarmente sentito e praticato, i cosiddetti “reati contro la fede pubblica” prevedevano sanzioni piuttosto gravi, dalla pena capitale ai lavori forzati, nel migliore dei casi.

A Palermo, ove s’era rifugiata la Corte Borbonica dopo l’invasione francese del Regno di Napoli, un ingegnosa zecca clandestina fu ideata e realizzata da uno stravagante personaggio, tale Antonio Galotti, che alternò la vita di brigante a quella di patriota cilentano.

Con il cognato Saverio Lipiani, il Galotti aveva preferito seguire gli amati sovrani, piuttosto che vivere sotto la dominazione francese.

Ma la sua zecca fu presto scoperta dai gendarmi siciliani. Fuggito appena in tempo in Calabria, il Galotti fu “arruolato” dai francesi ed utilizzato per promuovere la diserzione di un reggimento della Marina borbonica in quel di Messina. Ma evidentemente non si fermò a fare solo questo, tramandando, infatti, l’arte della falsificazione ad altri “accoliti”, come vedremo a breve.

I “falsi monetari” e le Guardie di Finanza (1861 – 1922)

Notevole, in tutti gli Stati preunitari dovette essere lo sforzo sostenuto dalle Gendarmerie, Polizie e, soprattutto, dai Corpi Doganali, che per primi erano interessati alla repressione del fenomeno nello svolgimento dei loro tradizionali compiti di vigilanza doganale delle frontiere, ovvero presso le Dogane interne.

Messina la Regia Dogana prima del terremoto del 1908

Si giunse così all’unificazione nazionale, nel febbraio del 1861, anche se preceduta dalle annessioni al Regno di Sardegna verificatesi già a partire dal 1859.

Una delle prime emergenze che s’imposero al nuovo Regno d’Italia fu certamente quella dell’unificazione delle monete sino ad allora circolanti nei vari Stati italiani.

Fu così che, nel biennio 1859 e 1860, monete come la svanzica, il tallero e il fiorino austriaci, ma anche la doppia di Parma, il ruspone e lo zecchino dell’ex Granducato di Toscana, il ducato ed il carlino furono considerate monete straniere per le quali si rendeva indispensabile la sostituzione.

Come ricordano gli storici italiani, oltre ad un’unica lingua fu necessario adottare anche un’unica moneta. A ciò provvide un Regio decreto del 17 luglio 1861, in virtù del quale le monete degli “antichi stati” venivano sostituite dalla lira piemontese, la quale a fine anno divenne lira italiana [1].

In tale frangente ebbero luogo già le prime falsificazioni, frutto dell’ignoranza generale e, soprattutto, della quasi impossibilità di verificare le falsificazioni in regioni, come quelle meridionali, in preda al brigantaggio post unitario.

Poiché la moneta che veniva accettata più facilmente era quella metallica, soprattutto perché corrispondeva, almeno per i tagli grossi, ad un titolo aureo o argenteo intrinseco, il cosiddetto “conio”, i principali tentativi di falsificazione riguardarono proprio il settore metallico, molto più facile di imitare e, soprattutto, da spacciare, operazione per la quale occorreva individuare “nascondigli” di difficile scoprimento.

Molto diversa e più complicata si rese la falsificazione dei cosiddetti “biglietti di banca”, le odierne banconote, la cui stampa era allora autorizzata ad alcuni Istituti di Credito, altrimenti detti Istituti d’Emissione.

Nel febbraio 1861, le banche più grosse erano sei: tutte corrispondenti agli Stati appena unificati.

Tuttavia, quelle inizialmente autorizzate a svolgere la funzione di Istituto d’emissione furono solo quella piemontese e la toscana, alle quali in seguito s’unirono il Banco di Napoli, nel 1866 e quello di Sicilia, nel 1867, che già da tempo ponevano in circolazione titoli di carta al portatore detti “fiduciari”, il cui uso, per quanto fosse limitato già durante Regno delle Due Sicilie, corrispondeva però a quello della carta moneta in aggiunta alla circolazione aurea.

Il Regno d’Italia adottò il bimetallismo Oro/Argento, per effetto del quale furono immesse in circolazione monete d’oro da 100, 50, 20, 10 e 5 lire, in argento da 5, 2 e da 1/0,5 lire ed infine di bronzo per la restante monetazione decimale o centesimale.

La carta moneta fu, invece, rappresentata da tagli da 1.000, 500 e 250 lire, i quali erano convertibili in oro, così come stabiliva il trattato “Gold Standard” siglato dall’Unione Monetaria Latina (composta da Francia, Belgio, Svizzera e Italia) ad un prezzo prefissato [2].

La falsificazione monetaria subì, anche nel nostro Paese, un’incredibile impennata verso la fine del 1865, in seguito ai primi attriti fra l’Austria e Prussia, con la quale l’Italia s’era alleata, impegnandosi in eventuali conflitti armati.

In tale ottica, poiché la fiducia dei risparmiatori era calata di molto, la carta moneta venne frettolosamente convertita in oro, mentre le restanti monete metalliche in argento furono risposte nei salvadanai.

Lo Stato dovette sopperire con l’uso di marche da bollo da 5, 10 e 15 lire, nella speranza che la situazione internazionale si evolvesse al meglio.

Come ricordano gli storici della moneta, la richiesta del Governo di un finanziamento straordinario per la preparazione della probabile campagna di guerra creò un  panico ulteriore, tant’è che quel poco che era rimasto in circolazione, comprese le monete di bronzo, sparì vergognosamente.

Il 1° maggio 1866 fu emanato il Regio decreto con il quale veniva disposto il cosiddetto “corso forzoso” [3] delle lire di carta, oltre al finanziamento di 250 milioni chiesto dal Governo.

Le monete metalliche sparirono definitivamente, mentre i prelievi di banca furono previsti con la sola carta moneta, che nessuno poteva rifiutarsi di accettare.

La politica protezionistica riguardò anche il settore doganale, tant’è vero che un Regio decreto del 14 luglio ’66 stabilì che a decorrere dal 10 del successivo mese di agosto: “Tutti i dazj doganali alla importazione dovessero pagarsi in monete metalliche d’oro e d’argento, pei bisogni del Tesoro è necessario che queste ne siano versate nelle Tesorerie dello Stato”.

Con lo scoppio della 3^ Guerra d’Indipendenza, oltre ad un “mercato nero” del cambio (si arrivò a scambiare 150 lire di carta per 100 d’oro), il falso nummario dilagò alla grande, potendosi interessare anche occupare dei “biglietti fiduciari”.

Mentre le nuove carte monete di piccolo taglio faticavano ad arrivare sul mercato, le Istituzioni statali, gli Enti locali e persino alcuni grandi commercianti, generalmente tramite le Casse di Risparmio, provvidero alla stampa dei “biglietti fiduciari” e ciò mentre alcune Società di Mutuo Soccorso per operai ed Opere Pie emisero addirittura “buoni di cassa”, circolanti come se fossero moneta, i quali diedero gran spazio alla fantasia ed all’ingegno di non poche organizzazioni di falsari, sia italiani che non.

Con la fine della guerra la situazione non migliorò più di tanto, almeno sul piano del falso nummario.

Verso la fine degli anni ’60 e per tutto il decennio ‘70 il Paese fu lacerato da una dura crisi economica, in virtù della quale i numerosi Governi che si alternarono al potere vararono norme fiscali dure e, molto spesso impopolari, come l’odiatissima tassa sul macinato.

Anche in tale contesto, ovviamente, la falsificazione di monete, banconote e titoli di credito e di stato proliferò in tutta la Nazione, contribuendo ad aggravare ulteriormente la situazione economica di gran parte delle famiglie italiane.

Nel tentativo di riformare l’intero sistema, agli inizi degli anni ’70 si tentò di vietare la circolazione delle varie forme di “surrogato monetario”, stabilendo che la Banca Nazionale nel Regno dovesse essere l’unica autorizzata ad emettere carta moneta su tutto il territorio nazionale, mentre le altre cinque banche avrebbero continuato ad emettere biglietti a corso legale, ma a stretto uso locale.

Con legge del 1874 venne, quindi, istituito un “Consorzio” comprendente le sei banche espressamente autorizzate all’emissione, vale a dire la Banca Nazionale nel Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito, la Banca Romana, il Banco di Sicilia ed il Banco di Napoli.

Gli Istituti furono chiamati ad anticipare allo Stato le somme necessarie al fabbisogno di bilancio emettendo i cosiddetti “biglietti consorziali” in regime di corso forzoso, in virtù dei quali i sei istituti furono resi solidalmente responsabili nei confronti dei portatori dei biglietti emessi per conto dello Stato [4].

Quella del 1874 fu la prima legge organica sull’emissione ed introdusse un oligopolio legalizzato e regolato che consentì di cristallizzare la situazione esistente.

Il 7 aprile del 1881, la migliorata situazione del bilancio dello Stato indusse il Governo ad abolire il corso forzoso (l’abolizione fu attuata dal 12 aprile 1883) assumendo in forma diretta la gestione dei “biglietti consorziali”, la cui intestazione fu modificata in “già consorziali“.

Nell’agosto del 1893, a seguito del famoso scandalo della Banca Romana, che approfondiremo in avanti, e con la fusione della Banca Nazionale nel Regno, la Banca Toscana Nazionale e la Banca Toscana di Credito, nacque la Banca d’Italia, alla quale fu demandata, fra l’altro, una preminente funzione di emissione monetaria (biglietti di banca), mentre il 21 febbraio 1894 veniva reintrodotto il “corso forzoso” della lira.

Ma la storia della falsificazione monetaria non ebbe tregua.

Un elevato rigurgito si ebbe durante la Prima Guerra mondiale, con numerosi casi scoperti dalla Guardia di Finanza e dalle altre Forze di Polizia, molto meno durante il ventennio fascista, anche grazie all’eccezionale opera svolta dalla Polizia Tributaria Investigativa delle Fiamme Gialle e, infine, durante l’amministrazione militare americana, seguita alle operazioni di sbarco in Sicilia (1943) ed alle operazioni in continente sino alla fine della Seconda Guerra mondiale.

In seguito all’emissione, da parte degli americani, delle note “A.M. lire”, necessarie per i loro bisogni e che si potevano convertire con la moneta ufficiale, molti falsificatori contribuirono, specialmente nel Meridione d’Italia, ad innescare quel processo inflazionistico che molti danni arrecò alla già gravissima situazione economica generale.

Un AM lira

Il falso monetario non venne meno con l’avvento della Repubblica Italiana, anzi raffinò le sue tecniche truffaldine anche grazie a moderne strumentazioni importate dagli Stati Uniti d’America.

Messina, 1864. La scoperta della grande stamperia di Tremonti

Sfortunatamente, riguardo al periodo 1861 – 1865, non disponiamo di dati ufficiali, volendo documentare dettagliatamente le singole operazioni che le Guardie Doganali dei Circoli, Distretti, Luogotenenze e Brigate operanti nel Paese predisposero ed eseguirono a tutela della moneta.

Tremonti (Messina), 1864: L’arresto di un falsario

Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che a quei tempi non veniva ancora pubblicato il Monitore Doganale, rivista mensile dell’allora Direzione Generale delle Gabelle del Ministero delle Finanze, sulla quale, a partire, invece, dal 1866 verranno pubblicate anche le più importanti operazioni “messe a segno” dalle Guardie Doganali.

L’episodio di cronaca che stiamo per raccontare è emerso, invece, grazie alle ricerche biografiche riguardanti uno dei più importanti ufficiali che il Corpo ebbe tra le proprie fila in quel frangente storico, l’Ispettore di 1^ classe Giulio Martinetti, originario della Sardegna, membro di una delle più importanti famiglie di La Maddalena, peraltro avo dell’attuale Ambasciatore del Perù in Italia, S.E. Giulio Eduardo Martinetti Macedo.

Il Martinetti, dopo aver militati a lungo nell’Amministrazione delle Gabelle degli allora “Regi Stati Sardi”, era divenuto, nel 1861, il primo Comandante dei Regi Preposti delle Gabelle del Regno d’Italia in Sardegna.

Nel 1862 viene, quindi, mandato a Messina, al Comando di quell’importantissimo Circolo. Qui si sarebbe distinto in molteplici operazioni anti contrabbando, così come avrebbe assicurato il concorso dei Doganieri alla tenuta della Sicurezza Pubblica.

Grazie a lui, spesso anche in unione con i reparti del Regio Esercito, in favore dei quali funsero da guide sul territorio, ovvero delle altre Forze di Polizia, le Guardie Doganali del Circolo di Messina andando a far parte delle famose “Squadriglie” anti brigantaggio.

E fu proprio nel corso di un’operazione del genere che, in una non meglio precisata data del primo semestre dell’anno 1864, le brave Guardie Doganali di Messina, in unione con i Delegati di Pubblica Sicurezza della Regia Questura alla sede, pervennero ad un’eccezionale risultato di servizio.

In base agli accordi intercorsi tra l’Ispettore Martinetti e il Regio Questore di Messina, Avv. Bernardo Buscaglione, alcuni Drappelli di Guardie Doganali furono incaricati di eseguire rastrellamenti sulle colline del Messinese, naturalmente col duplice scopo di “mettere le mani” su briganti e malandrini, ovvero di incalliti contrabbandieri, che spesso operavano con gli stessi metodi criminali.

Fu veramente grande la sorpresa delle Guardie Doganali e dello stesso Capo Drappello, il Sottotenente Mariano Lauria, allorquando, assieme all’Ispettore di Polizia, Gaetano Russo Gatto e ad un altro Delegato di Pubblica Sicurezza entrarono in una delle tante grotte site sulla collina di Tremonti, a circa un miglio e mezzo a Nord di Messina.

L’Ispettore delle Gabelle Giulio Martinetti – Cagliari, 1862 – Collezione dell’autore

Anziché trovarsi di fronte a un covo di briganti o malandrini, le Forze dell’Ordine scoprirono nientepopodimeno che una stamperia clandestina di monete false, sorprendendo sul fatto sia il falsario che l’aveva messa in piedi che il suo manutengolo (dei quali, purtroppo, non conosciamo i nomi) intervenuto prontamente in difesa del capo.

Ne nacque evidentemente un conflitto a fuoco, come emergerebbe dalla vignetta, pubblicata su una nota rivista periodica del tempo, la gloriosa “L’Illustrazione Universale” (esattamente a pag. 199 del n. 24 del 12 giugno 1864), realizzata sulla base di uno schizzo del noto incisore e pittore messinese, Letterio Subba (Messina, 1787 – 1868).

Sicuramente, quella appena descritta non fu l’unica operazione di rilievo messa a segno dalle Guardie Doganali in quel frangente storico, considerando la grave situazione nella quale versava l’isola, come ricordato prima.

Non solo, ma possiamo affermare che lo stesso Ispettore Martinelli, che andrà in congedo nel maggio del 1866, assicurò il proprio concorso anche nella tenuta del dispositivo sanitario, il c.d. “cordone sanitario”, in occasione dell’epidemia di colera che coinvolse Messina e la Sicilia durante l’estate del 1865, causando molte vittime. Ma questa è un’altra storia…

NOTE

[1] La lira dell’Italia Unita nacque il 24 agosto del 1862 (divisa in 100 centesimi). Aveva un valore pari a 4,5 g. di argento e 0,2903225 g. d’oro.

[2] Unione Monetaria Latina:Con una convenzione datata 23 dicembre 1865 Francia, Belgio, Italia e Svizzera formarono l’unione e si accordarono a scambiare le loro monete nazionali su uno standard di 4,5 g di argento o 0,290322 grammi di oro (un rapporto di 15,5 ad 1) e di rendere queste monete intercambiabili liberamente. L’accordo entrò in vigore dal 1° agosto 1866. Questi paesi in seguito furono affiancati da Spagna e Grecia nel 1868 e da Romania, Austria-Ungheria, Bulgaria, Venezuela, Serbia, Montenegro e San Marino nel 1889. Altri stati tra cui lo Stato pontificio e nel 1904 le Indie occidentali danesi usarono questo standard ma non aderirono all’Unione. A causa delle fluttuazioni dell’argento e dell’oro a seguito della Prima guerra mondiale, l’Unione durò fino al 1927, anno in cui venne sciolta”  (Tratto da Wikipedia).

[3] Sospensione della convertibilità di una moneta cartacea in moneta metallica – normalmente in oro – e appunto per questo motivo viene chiamato anche “gold standard” – e in quanto tale, fa in genere perdere valore (svalutazione) alla moneta rispetto alle altre rimaste convertibili in oro.

[4] I “biglietti consorziali” ebbero corso legale sino al 1888.

*Colonnello (Aus) della Guardia di Finanza – Storico Militare

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Autore