Guerra in Ucraina e rischio nucleare: facciamo il punto

Di Fabrizio Scarinci

KIEV. A circa sette mesi dal suo inizio, la famigerata “operazione militare speciale” voluta da Vladimir Putin allo scopo di riportare l’Ucraina nella sua sfera d’influenza sembrerebbe essersi risolta in un penoso fallimento.

Il Presidente russo Vladimir Putin

Le cause di questa “debacle” sono, ovviamente, moltissime, e una loro analisi dettagliata richiederebbe senz’altro uno spazio molto ampio.

Se, però, volessimo riassumerle in poche righe al fine di comprendere meglio come si sia arrivati all’attuale situazione potremmo, forse, azzardare l’ipotesi secondo cui il Cremlino, in possesso di un apparato militare piuttosto consistente ma non proprio allo “stato dell’arte” dal punto di vista tecnologico (eccezion fatta per le sue poderose forze nucleari e pochi altri dei suoi segmenti), avrebbe attaccato con soli 150/190.000 uomini un Paese di oltre 40 milioni di abitanti basandosi, da un lato, sul presupposto che esso non fosse altro che una creatura fittizia la cui popolazione (russofona e non) avrebbe in buona parte appoggiato o, quantomeno, non osteggiato l’ingresso delle sue forze sul proprio territorio, e dall’altro, sulla speranza che il sistema di alleanze a guida statunitense, politicamente indebolito dal precipitoso ritiro dall’Afghanistan, potesse scegliere di accettare il fatto compiuto (apportando, al limite, qualche piccola modifica al proprio regime sanzionatorio verso Mosca ma senza andare troppo oltre) onde evitare di mettere alla prova la propria coesione in un momento così delicato.

Un BMP-3 russo distrutto nel corso dei combattimenti con la forze ucraine

Tali illusioni (o scommesse, che dir si voglia) sarebbero, però, crollate già durante le prime settimane di guerra, quando, pur sottoposti a diverse incursioni da parte delle forze speciali nemiche e ad un’offensiva aero-missilistica piuttosto consistente (si parla, tra le altre cose, di circa 200 “cruise” utilizzati nel corso del primo mese e di un totale di oltre 1200 SRBM, soprattutto di tipo Iskander-M, lanciati nel corso dei primi due), gli ucraini avrebbero mostrato una capacità di resistenza tanto straordinaria quanto insospettabile (forse anche per la stessa NATO, che da anni aveva avviato un programma volto all’addestramento delle loro Forze Armate).

Dal canto loro, i leader occidentali sarebbero invece arrivati alla conclusione per cui, proprio in virtù dei fatti occorsi in Afghanistan (che si aggiungevano ai già numerosi problemi interni degli USA e alle non banali tensioni sviluppatesi tra i vari membri dell’Unione Europea nel corso degli anni precedenti), non rispondere all’aggressione nei confronti di un Paese associato all’UE e membro del “Partnership for Peace Programme” fin dal 1994 avrebbe definitivamente minato la loro credibilità, con pesanti conseguenze anche in altre aree del pianeta (come, ad esempio, Taiwan o il Mar Cinese Meridionale).

Pertanto, oltre ad incrementare le sanzioni nei confronti della Federazione Russa (che, per ritorsione, avrebbe posto in essere diverse interruzioni delle forniture di gas all’Europa), essi hanno anche iniziato a fornire a Kiev ingenti quantitativi di sistemi d’arma altamente sofisticati, che, unitamente ad un costante ed efficace supporto d’intelligence, avrebbero causato ingentissime perdite ad un dispositivo militare russo caratterizzato da mediocri capacità ISR (Intelligence, Surveillance & Reconaissance), scarse capacità nel campo della protezione delle piattaforme, scarsissimi quantitativi di sistemi d’arma intelligenti (basti pensare che i 200 cruise lanciati dagli aerei e dalle navi durante il primo mese dell’operazione avrebbero costituito addirittura il 50% del proprio arsenale ante guerra) e una logistica a dir poco inadeguata.

Un missile da crociera russo 3M-54 “Kalibr”

In conseguenza di ciò, se il piano originale di Mosca, elaborato quando i suoi vertici erano ancora convinti che l’operazione sarebbe stata una sorta di “passeggiata”, sembrava includere sia una rapida avanzata verso Kiev (chiaramente finalizzata all’attuazione di un “cambio di regime”), sia la conduzione di azioni offensive da est e dalla Crimea al fine di assicurarsi il controllo delle aree russofone del Paese (come, ad esempio, quelle delle repubbliche indipendentiste di Lugansk e Donetsk), nel giro di qualche settimana il Cremlino sarebbe stato costretto a rinunciare alla Capitale e a concentrarsi esclusivamente sulle aree orientali e meridionali, che la sua propaganda avrebbe, a quel punto, spacciato come l’unico vero obiettivo dell’operazione.

Anche lì, però, dopo una prima fase relativamente favorevole, soprattutto tra maggio e giugno, le operazioni avrebbero raggiunto una sostanziale condizione di stallo, che sarebbe stata interrotta verso la fine di agosto da una poderosa controffensiva ucraina.

Pianificata e condotta in modo assolutamente magistrale, tale azione avrebbe visto le forze di Kiev lanciare dapprima una serie di attacchi nell’Oblast meridionale di Kherson (che, pur non essendo un semplice diversivo, tanto è vero che starebbero continuando anche in questi giorni, avrebbero comunque fatto in modo che le attenzioni dei comandi russi si rivolgessero prevalentemente verso quell’area), per poi travolgere con un ingente quantitativo di forze il punto più debole dello schieramento avversario, individuato, in particolare, nella regione di Kharkiv (ovvero nella parte nord-orientale del Paese), dove a fine agosto risultavano presenti solo alcune unità della Guardia Nazionale e delle milizie separatiste del Donbass.

Per tutto il mese successivo, pur con qualche fisiologico rallentamento, la controffensiva non avrebbe accennato a fermarsi, con la riconquista, nel quadrante nord-orientale, dell’importante snodo logistico di Lyman (completamente liberato pochi giorni fa) e, in quello meridionale, di diverse località situate a nord della città di Kherson, dove circa 30.000 russi starebbero attualmente rischiando di rimanere accerchiati.

In poche parole, l’armata di Mosca si troverebbe nel mezzo di una vera e propria catastrofe, che, oltre a causare ingenti perdite di uomini e mezzi, potrebbe anche comportare la perdita di una buona parte del terreno conquistato finora e minare in modo significativo la credibilità della Russia come potenza capace di imporre la propria volontà (giusta o sbagliata che sia) agli altri soggetti del Sistema Internazionale; cosa che, nelle attuali circostanze, rischia di accelerare non poco il suo processo di “sottomissione” alla Cina.

A voler fare un paragone storico, sembrerebbe trattarsi di una situazione non troppo diversa da quella che noi italiani sperimentammo quando, il 19 gennaio del 1941, un Mussolini fortemente indebolito dalle disfatte subìte in Africa ad opera degli inglesi e dal fatto di non essere riuscito a “spezzare le reni alla Grecia” dovette recarsi a Salisburgo per incontrare il Fuhrer, che l’anno precedente aveva invece occupato mezza Europa ed espugnato il fronte occidentale.

Stando ai resoconti storici, l’incontro sarebbe stato estremamente cordiale, con Hitler che avrebbe assicurato l’imminente invio di rinforzi, pregando anche il Duce di convincere Franco ad entrare in guerra poiché egli non vi era riuscito.

Tuttavia, con quel clima di cordialità si stava anche, e soprattutto, delineando la natura delle future relazioni italo-tedesche, che, da quel momento in avanti, avrebbero visto Berlino dettare la linea e Roma fungere semplice “comprimaria”.

Una situazione molto simile a quella appena descritta potrebbe essere andata in scena (in un clima, peraltro, neppure troppo cordiale) anche durante l’ultimo summit della Shanghai Cooperation Organization, tenutosi nella città uzbeka di Samarcanda tra il 15 e il 16 settembre.

In tale occasione, infatti, oltre a ricevere critiche piuttosto nette (tra l’altro, anche dal premier indiano Nerendra Modi, che rappresenta uno dei maggiori acquirenti di sistemi d’arma russi al mondo), Vladimir Putin è stato, di fatto, costretto, in cambio di nulla (se non del generico impegno cinese per il “perseguimento di un Sistema Internazionale di tipo multipolare”), a garantire a uno Xi Jinping sempre più insofferente verso l'”operazione militare speciale” il pieno appoggio sull'”affaire” di Taiwan.

Il differente trattamento riservato alle due questioni (piuttosto simili tra loro, anche se originatesi in modo differente) rappresenta, senz’altro, un primo assaggio dei futuri rapporti che il Cremlino potrebbe avere con la Cina, che, tra le altre cose, si appresta anche a diventare lo sbocco più importante per le sue esportazioni di materie prime.

Un recente incontro tra Vladimir Putin e il Presidente cinese Xi Jinping

Ma gli “aneddoti” sul summit non sono tutto, poiché la palese perdita di credibilità dell’apparato militare russo starebbe iniziando a riverberarsi anche sulle dinamiche di quelle aree che Mosca considera il suo “giardino di casa” (o, come si dice da quelle parti, il suo “estero vicino”).

Il riferimento va, in modo particolare al decennale conflitto che contrappone l’Armenia (fedele alleata di Mosca) all’Azerbaijan (molto più vicino ai turchi), che si sarebbe riacceso lo scorso 12 settembre, a quanto pare con un attacco degli azeri ai danni degli armeni.

Il Cremlino sembrerebbe, però, non volersi rassegnare, e già nelle giornate immediatamente successive alla controffensiva ucraina avrebbe lanciato due importanti iniziative finalizzate ad uscire dalla difficile ed umiliante situazione venutasi a determinare.

Come noto, infatti, sarebbe stato deciso, da un lato, di richiamare 300.000 riservisti (che, per alcune fonti, sarebbero anche di più) allo scopo di ottenere una chiara superiorità numerica rispetto all’avversario (elemento che, almeno finora, sembrerebbe essere mancato), e dall’altro, di procedere, mediante dei referendum farsa, alla formale annessione delle regioni di Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia, in modo da segnalare sia agli ucraini che agli occidentali che, pur di conservarle, la Russia sarebbe disposta anche a prendere in considerazione la possibilità di ricorrere all’ultimo strumento su cui può ancora contare al fine di imporsi come una vera grande potenza, ossia l’arma nucleare.

In seguito all’annessione delle quattro regioni si è, infatti, molto parlato di come l’attuale dottrina militare russa preveda l’utilizzo di tali armi non solo in risposta ad un eventuale “first use” da parte nemica, ma anche allo scopo di proteggere il territorio della Federazione da attacchi convenzionali potenzialmente in grado di minacciare la sua esistenza.

Ovviamente, l’ipotesi secondo cui l’eventuale perdita di qualche striscia di territorio conquistata solamente da pochi mesi a questa parte possa minacciare l’esistenza dell’intero Stato russo sembrerebbe a dir poco un’assurdità.

Ma, come tutti sanno, il problema non è tanto costituito dagli effetti che tale ritirata avrebbe sullo Stato, quanto piuttosto da quelli che produrrebbe sul regime.

Per tale ragione, soprattutto nel caso in cui i 300.000 riservisti richiamati negli ultimi giorni risultassero insufficienti al fine di riprendere l’iniziativa sul campo (cosa, nel breve termine, risulta anche abbastanza probabile, considerando il tempo di cui queste avrebbero bisogno al fine di diventare pienamente operative), escludere a priori che il Cremlino non possa davvero finire per ritenere “proporzionato” l’utilizzo di qualche arma nucleare a basso rendimento nell’ambito delle zone contese potrebbe essere un errore.

Un Iskander M in fase di preparazione al lancio. In un ipotetico attacco nucleare tattico Mosca potrebbe impiegare alcuni di questi missili

Alcuni avvertimenti neanche troppo velati in tal senso sarebbero, peraltro, già stati lanciati dallo stesso Vladimir Putin, che, tra le altre cose, in un suo recente discorso avrebbe anche definito i bombardamenti atomici statunitensi su Hiroshima e Nagasaki una sorta di “precedente”.

Naturalmente, almeno per il momento, è molto probabile che si tratti solo di una mossa volta a riportare gli ucraini e i loro alleati al tavolo dei negoziati, ma ciò non toglie che in Occidente tali affermazioni siano state prese molto sul serio in tutti i loro aspetti, e che, insieme a quelle (anche più esplicite) dell’ex Presidente Dimitri Medvedev e del leader ceceno Razman Kadyrov, abbiano indotto la NATO a chiarire come l’eventuale impiego di armi nucleari da parte dei russi comporterebbe sicuramente una risposta diretta, che, stando ad alcune recenti dichiarazioni del Segretario Generale Jens Stoltenberg, dovrebbe consistere in un massiccio attacco convenzionale finalizzato alla distruzione delle forze di Mosca presenti sul suolo ucraino e della flotta russa del Mar Nero.

Un messaggio che appare perfettamente indicativo su come l’Alleanza cercherebbe di gestire l’eventuale escalation facendo leva sulla sua significativa superiorità militare, con cui potrebbe infliggere una dura (ancorché limitata) “punizione” alla Russia, che, a quel punto, non potrebbe far altro che scegliere tra un negoziato condotto a partire da una posizione ancor più sfavorevole, la continuazione dello scontro sul suolo ucraino (nel quale, tuttavia, la sua inferiorità tecnologica la condannerebbe o ad una condizione di svantaggio sempre più marcata, o all’utilizzo di ulteriori armi nucleari tattiche; col rischio, però, di indurre la NATO a rispondere con armi dello stesso tipo) e il lancio di un attacco nucleare su vasta scala contro gli USA e i loro alleati; opzione che sembrerebbe, però, piuttosto inverosimile, considerando che, di fatto, si tratterebbe di scatenare e, subito dopo, subire una vera e propria apocalisse in assenza di una minaccia dello stesso tipo da parte occidentale.

Il Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg

In ragione di quanto appena detto, si potrebbe, quindi, giungere alla conclusione per cui, malgrado tutto, lo “zar” farebbe comunque meglio a non oltrepassare il punto di non ritorno e ad evitare il coinvolgimento diretto della NATO nell’ambito del conflitto.

In ogni caso, però, a prescindere da ciò che il Cremlino deciderà di fare riguardo al nucleare, quel che è certo è che il suo leader sembrerebbe, ormai, essersi procurato il non facilmente risolvibile problema di dover necessariamente “portare qualcosa a casa” contro un avversario fortemente determinato a non cedergli nulla, in particolar modo adesso che la sua controffensiva starebbe iniziando a dare qualche frutto.

Per il momento, quindi, non sembrerebbe esserci alcuna possibilità concreta di venire a capo della questione e, anche qualora i vari attori parte del conflitto decidessero di tornare al tavolo delle trattative (cosa su cui si sarebbe, in effetti, registrata una parziale apertura da parte del segretario di Stato americano Antony Blinken), non si potrebbe non constatare come, anche alla luce di ciò che si è dichiarato, compiuto o perseguito nel corso di questi sette mesi di guerra, ognuno di essi avrebbe molto, forse troppo, da perdere accettando di cedere su qualcosa.

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