Di Maria Stefania Cataleta*
KIEV (nostro servizio particolare). Diversi organismi sono stati incaricati di condurre inchieste sui crimini che si stanno compiendo nel corso della guerra in Ucraina, uno di questi è la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sull’Ucraina, istituita il 4 marzo 2022 dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
La Commissione, il 15 marzo scorso ha pubblicato un rapporto sulla situazione dei diritti umani in Ucraina.
Nel rapporto si denuncia un numero molto alto di violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario compiute dai russi sia sul territorio ucraino che su quello della Federazione Russa.
Si tratta in larga parte di crimini di guerra, come attacchi indiscriminati ai civili, uccisioni volontarie, detenzioni illegali, atti di tortura, stupri e trasferimento e deportazione di minori.
Ma sono stati riscontrati anche numerosi crimini contro l’umanità, come gli attacchi deliberati, sistematici, sproporzionati e su vasta scala alle infrastrutture civili energetiche ucraine a far data dal 10 ottobre 2022, senza contare l’occupazione armata russa della centrale nucleare di Zaporizhzhia, fonte di grave allarme per il rischio concreto di un incidente nucleare.
Immagini satellitari hanno rilevato la presenza di equipaggiamenti militari posizionati a meno di 150 metri dal reattore.
I PROCEDIMENTI ALLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE (CPI)
E’ sempre del marzo scorso l’avvio di due procedimenti davanti alla Corte penale internazionale (CPI) nell’ambito del conflitto in Ucraina.
Ai fini dell’attivazione della Corte, occorre una notitia criminis comunicata al Procuratore o da uno Stato parte o dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU o acquisita d’ufficio dal Procuratore, nel caso in cui la Camera di esame preliminare lo autorizzi.
Per quel che riguarda l’Ucraina, vi è stato il deferimento alla Corte da parte di più di 40 Stati terzi al conflitto, primo caso di referral congiunto da parte di così tanti Paesi.
E’ la prima azione giudiziaria concreta dall’inizio del conflitto, che fa seguito alle investigazioni condotte dal Procuratore della CPI, che nell’arco di un anno ha raccolto prove schiaccianti.
Tra i capi d’imputazione vi è la deportazione di minori ucraini, destinati a campi di rieducazione in Russia, oltre agli attacchi ad obiettivi civili.
La deportazione dei minori sarebbe stata finalizzata a renderli cittadini russi, secondo un preciso piano politico messo in atto dal Cremlino, ma presentato al pubblico, anche attraverso le parole del Commissario russo per i diritti dei minori, Maria Lvova-Belova, più come una missione umanitaria che come una deportazione.
In realtà, il trasferimento illegale di cittadini e la loro naturalizzazione come cittadini russi, al momento configurati come crimini di guerra, potrebbero integrare il crimine di genocidio, nella misura in cui vi è un disegno di cancellazione dell’identità ucraina attuata coercitivamente attraverso il cambio di nazionalità e la deportazione in un territorio straniero. In questo modo si perseguirebbe lo scopo di distruggere anche solo in parte un gruppo nazionale.
All’apertura del procedimento ha fatto subito seguito, il 17 marzo, l’emissione di due mandati d’arresto da parte Camera preliminare II della CPI, che vedono come destinatari Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova, considerati i principali responsabili dei trasferimenti forzati e della deportazione illegale di popolazione, in questo caso minori ucraini.
Si tratta di violazioni gravi della Convenzione di Ginevra sulla tutela della popolazione civile e di una violazione alle leggi e agli usi applicabili nel quadro consolidato del diritto internazionale sui conflitti armati internazionali.
La Camera di esame preliminare può emettere, su richiesta del Procuratore, un ordine di comparizione o un mandato di arresto in qualsiasi momento dopo l’apertura di un’indagine se è convinta che vi sono fondati motivi di ritenere che tale persona abbia commesso un reato di competenza della Corte, se l’arresto si rende necessario per garantire la comparizione della persona al processo, per impedire che la persona non ostacoli o metta a repentaglio le indagini o il procedimento dinanzi alla Corte, oppure per impedire che la persona continui in quel crimine o in un crimine connesso rientrante nella giurisdizione della Corte.
Si perseguono le due figure di spicco di questa vicenda poiché la Corte giudica i leadership crimes, lasciando alle giurisdizioni nazionali i procedimenti per le figure di minor calibro e si perseguono in particolar modo questi crimini, malgrado ve ne siano molti altri altrettanto gravi come stupri, torture e impiego di armi vietate, poiché è in relazione a questi fatti che si sono ottenuti sino ad ora maggiori riscontri probatori.
Questo non toglie che le indagini proseguono anche per i numerosi altri gravi illeciti commessi dai russi.
Per ciò che riguarda Putin, oltre ad una responsabilità a titolo individuale e in concorso con altri, gli viene attribuita anche una responsabilità di comando, per aver consentito la perpetrazione di tali crimini ad opera dei sui subordinati civili e militari, e/o per non aver esercitato il dovuto controllo in quanto superiore gerarchico.
Si tratta di un profilo di responsabilità la cui affermazione ha un grande valore simbolico, poiché negando l’immunità a un capo di Stato – la qualifica ufficiale dell’imputato non rileva innanzi alla CPI, che non riconosce le immunità funzionali – si afferma il principio che anche gli alti ranghi civili e militari devono rispondere delle loro condotte illecite davanti alla giustizia penale internazionale, di fronte alla quale non incide neanche il decorso del tempo, poiché i crimini internazionali non cadono in prescrizione davanti alla CPI.
E’ la prima volta nella storia della giustizia penale internazionale che a rispondere per crimini di guerra davanti ad una giurisdizione penale internazionale sia il Presidente in carica di una potenza nucleare, potenza che è anche tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
La Russia è paradossalmente anche un Paese che ebbe un ruolo di primo piano nel processo di Norimberga.
In precedenza, la Corte ha emesso mandati di arresto nei confronti di due capi di Stato e di altri individui-organi protetti da immunità personale, accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità: in relazione ai crimini in Darfour, nei confronti del ministro dell’Interno, Ahmad Harun, e del Presidente del Sudan, Al Bashir, e a quelli relativi ai crimini commessi in Libia, emessi nei riguardi di Gheddafi e di due altri dirigenti libici.
Come è noto, la Russia non riconosce questa giurisdizione e per questo è da escludersi che il Cremlino possa consegnare i propri concittadini alla giustizia della Corte, davanti alla quale non è ammesso il processo in absentia.
Questo, secondo gli scettici verso questa giurisdizione, renderebbe vano sia il procedimento che il mandato d’arresto, a meno che Putin non si rechi in uno dei 123 Stati firmatari dello Statuto di Roma – si tratta di due terzi degli Stati membri dell’ONU – che in quel caso sarebbe obbligato a cooperare con la Corte e a trarre in arresto il Presidente russo.
Di fronte a tale prospettiva, il Cremlino, che ha bollato questo mandato come “oltraggioso e inaccettabile”, ha già ammonito rispetto all’eventualità di un arresto di Putin, che sarà considerato alla stregua di una dichiarazione di guerra contro la Federazione Russa.
Non spinge all’ottimismo il precedente analogo che ha riguardato l’esecuzione del mandato d’arresto della CPI contro il Presidente sudanese Omar Al Bashir, nel 2009, mai eseguito nonostante l’obbligo di cooperazione dei numerosi Stati africani in cui si egli si era recato senza alcun problema in virtù dell’immunità a lui riconosciuta a livello nazionale.
In quel caso, si erano rifiutati di cooperare con la Corte Ciad, Gibuti, Malawi, Repubblica Democratica del Congo e Sud Africa, che non avevano arrestato Al-Bashir in occasione del suo transito sul loro territorio. A quel tempo quella della CPI era accusata di essere una “giustizia dei bianchi”, perché molti procedimenti vedevano coinvolti Paesi africani.
Le accuse che da anni si muovono contro la CPI è di essere forte con i deboli e debole con i forti, per essere rea di aver perseguito solo i low cost defendants, ovvero gli imputati degli Stati più deboli, lasciando impuniti i vertici civili e militari delle grandi potenze.
Eppure quest’ultima iniziativa giudiziaria segna un cambio di passo di questa giurisdizione, fino a ieri impegnata in conflitti intrastatali.
E’ la prima volta che un’inchiesta della Corte concerne un conflitto interstatale ad alta intensità, laddove i precedenti Procuratori si erano molto focalizzati sulle guerre civili che insanguinano l’Africa, anche in quei casi i procedimenti hanno riguardato in via prioritaria crimini commessi contro i minori, quali l’arruolamento di bambini-soldato.
E’ anche vero che, a parte il caso particolare della guerra nei Balcani, è a partire dalla Seconda Guerra Mondiale che il Continente europeo non era più teatro di un conflitto internazionale.
Lo spettro delle guerre tra Stati si è riaffacciato con il conflitto russo-ucraino.
In genere gli Stati sono restii a consegnare i propri cittadini a giurisdizioni internazionali, sopratutto quando si tratta di imputati eccellenti, preferendo che siano giudicati a livello domestico.
A questo riguardo occorre sottolineare che la CPI non intende sostituirsi alle giurisdizioni nazionali. In virtù del principio di complementarità, che costituisce la base del suo funzionamento, la Corte non ha una competenza esclusiva né prioritaria rispetto alle giurisdizioni nazionali.
Il principio è stato introdotto nello Statuto della Corte, nato dalla libera volontà degli Stati che l’hanno sottoscritto, proprio per rispettare la sovranità nazionale.
Il principio di complementarità tiene conto della sovranità degli Stati in una materia soggetta al cosiddetto dominio riservato, quale è quella penale.
Infatti il principio tradizionale per punire i crimini di diritto internazionale è quello della competenza dei tribunali interni.
I PRECEDENTI DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE
Tuttavia, la Corte interviene se lo Stato, per le più svariate ragioni, non vuole o non può giudicare quel reo, si dice in questo caso che lo Stato è unwilling o unable.
Ad esempio, nel procedimento della CPI contro Gheddafi, nel 2013, la Camera di esame preliminare aveva respinto le argomentazioni della Libia, che aveva dichiarato di voler perseguire l’accusato di fronte ai giudici nazionali, ritenendo che questo Paese non avesse prodotto prove sufficienti per dimostrare che le proprie autorità stavano svolgendo le dovute indagini su quei crimini e che il Paese non disponesse di un sistema giudiziario capace di garantire un procedimento equo e una giustizia effettiva. In ragione di ciò, la Corte aveva chiesto alla Libia di cooperare, consegnando l’accusato.
Tra gli Stati più refrattari a questa Corte vi è proprio la Federazione Russa, ma lo sono anche gli Stati Uniti. V’è da dire, però, che qualora fosse garantita una amministrazione della giustizia imparziale, equa ed effettiva a livello domestico, nessun Paese dovrebbe temere l’intervento della CPI.
Il motivo per cui interviene la giustizia penale internazionale è proprio perché gli Stati non vogliono perseguire i loro personaggi “eccellenti”, sopratutto quando sono ancora in carica, lasciandoli così impuniti.
La funzione svolta dalla CPI è proprio quella di lottare contro l’impunità rispetto a reati molto gravi, che scioccano le coscienze di tutti.
Se è vero che il mandato d’arresto contro Putin è di difficile esecuzione, è però vero che quest’azione giudiziaria, che per il momento è più che altro un’operazione di naming and shaming, contribuisce ad isolarlo maggiormente sul piano internazionale, isolamento che fino ad ora è stata l’unica arma praticabile dall’Occidente, dopo l’isolamento internazionale essendoci solo l’intervento armato, cosa che le democrazie stanno scongiurando in tutti i modi.
*Docente di Operazioni di pace e intervento umanitario presso l’Università Niccolò Cusano e avvocato ammesso alla Corte penale internazionale
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