Di Giuseppe Gagliano
RIHADH. Il Medio Oriente è un’arena di fiamme, e Mohammed bin Salman, il giovane e ambizioso principe ereditario dell’Arabia Saudita, conosciuto come MBS, si muove al centro di un vortice che potrebbe travolgere il Golfo.

La guerra tra Israele e Iran, scoppiata il 13 giugno scorso, non è solo un conflitto tra due potenze rivali: è una prova di resistenza per un’intera regione, un test per la leadership saudita e un enigma politico che ruota attorno a un attore imprevedibile, Donald Trump.
Mentre le sirene antiaeree squarciano il cielo di Tel Aviv e Teheran, MBS tesse una tela diplomatica frenetica, parlando con Macron, Erdogan, Starmer, persino con il Presidente iraniano Pezeshkian.
Ma dietro le quinte, nella sua cerchia ristretta, serpeggia un’inquietudine: cosa vuole davvero Trump?
È un alleato, un opportunista o un rischio calcolato? In questo gioco di specchi, il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) diventa il terreno dove Riyadh cerca di imporre un equilibrio fragile, mentre il mondo guarda e il tempo scorre.

Le paure che tengono sveglio MBS
Mohammed bin Salman non dorme sonni tranquilli.
La guerra tra Israele e Iran non è solo un conflitto lontano: è una minaccia che bussa alle porte del Regno. Le sue preoccupazioni sono molteplici, intrecciate come i fili di un arazzo che potrebbe strapparsi da un momento all’altro:

Il prezzo del petrolio e la sopravvivenza di Vision 2030: Il Golfo è il cuore pulsante dell’economia saudita, con il 62% delle entrate di Riyadh legato al greggio.
Un attacco iraniano, diretto o tramite proxy come gli Houthi, potrebbe replicare il disastro di Abqaiq del 2019, quando droni yemeniti hanno dimezzato la produzione di Aramco.
Un conflitto prolungato rischia di strangolare i mega-progetti di MBS – da NEOM ai piani di diversificazione economica – e di spaventare gli investitori stranieri, che hanno già promesso 600 miliardi di dollari agli Stati Uniti.
Il fragile mosaico del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo).
Dopo la riconciliazione con il Qatar nel 2021, il CCG sembrava aver trovato una nuova unità.
Ma la guerra mette a rischio questa coesione. Oman e Qatar, con i loro canali aperti verso Teheran, potrebbero divergere dalla linea dura di Riyadh e Abu Dhabi, che vedono nell’Iran una minaccia mortale.
Il principe sa che un Consiglio di Cooperazione frammentato è un Golfo vulnerabile.
La leadership del mondo sunnita
La caduta di Hamas e Hezbollah, colpiti duramente da Israele, ha creato un vuoto di potere nel mondo arabo.
MBS vuole riempirlo, consolidando il ruolo dell’Arabia Saudita come faro sunnita.
Ma un’escalation incontrollata potrebbe costringerlo a scegliere tra il sostegno agli Stati Uniti e la necessità di dialogare con l’Iran, un equilibrio che ha già sperimentato con la storica visita del fratello Khalid bin Salman a Teheran nell’aprile 2025.
La minaccia interna
La stabilità del Regno dipende dalla capacità di MBS di proiettare forza e visione.
Un conflitto che destabilizzi la regione potrebbe alimentare dissenso interno, specialmente tra le élite che guardano con scetticismo alle sue riforme audaci.
Una strategia per spegnere l’incendio
MBS non è uomo da restare a guardare. La sua risposta alla crisi è un’operazione su più fronti, un mix di diplomazia spregiudicata e pragmatismo interno:
Una danza diplomatica globale
Dal 13 giugno, il principe ha trasformato il suo telefono in un’arma strategica.
Ha parlato con Macron per lamentare le violazioni israeliane del diritto internazionale, con Starmer per chiedere un’azione concertata del G7, con Erdogan per coordinare una posizione comune nel mondo musulmano. Con Pezeshkian, presidente iraniano, ha offerto solidarietà, un gesto che sa di realpolitik più che di empatia.
Ogni colloquio è una tessera di un mosaico più grande: posizionare Riyadh come mediatore indispensabile.
La Task Force saudita
Per gestire la crisi, MBS ha creato una squadra d’élite.
Al centro, il fratello Khalid bin Salman, ministro della Difesa, che ha il compito di proteggere le infrastrutture petrolifere e mantenere aperto il canale con Teheran.
Faisal bin Farhan Al Saud, ministro degli Esteri, coordina il dialogo con il CCG e le potenze occidentali, spingendo per un cessate il fuoco attraverso l’ONU.
Abdulaziz bin Salman, ministro dell’Energia, vigila sui mercati del petrolio, mentre Yasir Al-Rumayyan, governatore del Public Investment Fund, si assicura che gli investitori non abbandonino i progetti sauditi. È una macchina ben oliata, che riflette l’approccio centralizzato di MBS.
Il CCG come scudo e spada: MBS ha spinto per una posizione unitaria del Consiglio, affidando a Oman e Qatar il ruolo di ospitare colloqui d’emergenza tra l’inviato USA Steve Witkoff e i diplomatici iraniani.
L’obiettivo è duplice: fermare la guerra e rilanciare i negoziati sul nucleare iraniano, evitando che il conflitto travolga le basi USA nel Golfo.
Gesti simbolici: In un colpo di teatro diplomatico, MBS ha ordinato al Ministero dell’Hajj di assistere i pellegrini iraniani bloccati in Arabia Saudita, un segnale di distensione che serve a rafforzare la credibilità di Riyadh come attore neutrale.
I sospetti su Trump: un alleato o un enigma?
Nella fortezza di Riyadh, il nome di Donald Trump è pronunciato con un misto di rispetto e diffidenza.
MBS e Trump si capiscono: parlano la lingua degli affari, dei grandi accordi, della politica come transazione. I 142 miliardi di dollari in armamenti e i 600 miliardi di investimenti sauditi negli USA sono la prova di un’alleanza solida.
Ma le mosse di Trump nella crisi Iran-Israele hanno acceso un campanello d’allarme:
Un negoziato nucleare ambiguo
L’annuncio di Trump, a maggio scorso, di voler riaprire i colloqui sul nucleare iraniano ha spiazzato Riyadh. MBS teme che un accordo troppo morbido possa rafforzare Teheran senza neutralizzare la sua rete di proxy, dagli Houthi a Hezbollah, che minacciano il Golfo.
Il disimpegno selettivo
La decisione di Trump di sospendere i raid contro gli Houthi in Yemen senza consultare Israele, e il suo silenzio sugli attacchi iraniani all’Aeroporto di Tel Aviv Ben Gurion , fanno sospettare che gli USA stiano riducendo il loro impegno militare, lasciando l’Arabia Saudita esposta.
La cerchia di MBS si chiede se Trump stia inseguendo una politica di “America First” che sacrifichi gli alleati del Golfo.
Interessi personali
Non sfugge a Riyadh che Trump, con i suoi progetti immobiliari (due Trump Towers in cantiere a Jeddah e Riyadh), potrebbe vedere il Medio Oriente come un’opportunità di profitto più che di stabilità. Questo alimenta il timore che le sue decisioni siano guidate da calcoli economici piuttosto che strategici.

L’esclusione di Israele
Il tour mediorientale di Trump a maggio che ha ignorato Tel Aviv per concentrarsi su Riyadh, Doha e Abu Dhabi, ha irritato Netanyahu e sollevato dubbi a Riyadh.
MBS, che considera Israele un contrappeso necessario all’Iran, teme che un disallineamento tra Washington e Tel Aviv possa complicare la sua posizione.
Trump, l’alleato indispensabile ma imprevedibile
MBS sa che Trump è una carta fondamentale nel mazzo saudita.
La sua influenza è tangibile: la rimozione delle sanzioni alla Siria, su richiesta di MBS, e l’incontro con il nuovo leader siriano Ahmed al-Sharaa dimostrano che Trump è disposto ad ascoltare Riyadh. Ma la sua politica è un rompicapo.
Trump ha spinto per un cessate il fuoco a Gaza e ha chiesto a Netanyahu di limitare le operazioni in Libano e Siria, allineandosi in parte con le richieste saudite.
Tuttavia, la sua retorica bellicosa contro l’Iran, seguita da aperture al dialogo, crea confusione.
MBS teme che un accordo nucleare troppo permissivo possa rafforzare Teheran, mentre un’escalation militare diretta degli USA rischierebbe di trascinare il Golfo in un conflitto aperto.
In questo gioco, Trump è un alleato che offre opportunità ma nasconde insidie.
Un equilibrista nel caos
Mohammed bin Salman cammina su una lama sottile.
La guerra Iran-Israele è una minaccia, ma anche un’occasione per dimostrare che l’Arabia Saudita può essere più di un esportatore di petrolio: può essere un faro di stabilità in un Medio Oriente frantumato.
La sua Task Force, i colloqui incessanti, il ruolo del CCG sono i pezzi di una strategia che cerca di contenere il conflitto senza perdere di vista gli interessi del Regno.
Ma i sospetti su Trump, il rischio di un CCG diviso e la fragilità di Vision 2030 sono ombre che incombono.
In un mondo dove ogni missile è un messaggio e ogni colloquio un calcolo, MBS sa che il futuro del Golfo non si decide solo nei campi di battaglia, ma nelle stanze dove si scrivono gli equilibri di potere.
E in quelle stanze, il principe saudita è deciso a lasciare il suo segno.
*Presidente Centro Studi Cestudec
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