Guerra Israele-Iran: l’Italia in trincea. Il conflitto che ci sorvola

Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C.  Non siamo in guerra.

Nessun proclama ufficiale, nessun ordine di mobilitazione. Eppure, aerei militari continuano a decollare da basi italiane diretti verso teatri di crisi.

Alcuni non fanno ritorno per ore, altri scompaiono dai tracciati civili.

Qualcuno, da settimane, sorvola il Mediterraneo orientale. E allora, la domanda è inevitabile: se il nostro territorio ospita mezzi e uomini impiegati in operazioni militari, possiamo davvero dirci fuori dal conflitto?

L’Italia ha nel suo territorio moltissime basi NATO.

La sede della NATO

Alcune sono sotto bandiera statunitense, altre sono asset condivisi. Sigonella, Aviano, Vicenza, Camp Darby, Napoli.

Tutte non sono nomi generici ma punti nodali di un’infrastruttura militare euro-atlantica su cui si appoggiano logistica, intelligence, attacco e deterrenza.

Dalla Sicilia partono i droni Reaper verso il Medio Oriente. Dal Friuli decollano gli F-16 americani in stato di prontezza.

Un Reaper MQ 9 (Di Lt. Col. Leslie Pratt )

 

In Toscana c’è uno dei depositi logistici più grandi al di fuori del territorio statunitense.

L’Italia non combatte, ma consente che si combatta. E questo la rende parte attiva, anche se senza proclami.

Tutto ciò avviene in silenzio. Il silenzio della politica, che evita di esporre alla luce del dibattito pubblico una verità scomoda: non esiste più una netta distinzione tra chi partecipa a un conflitto e chi solo lo “ospita”.

In un mondo dove i missili viaggiano a 3 mila  chilometri l’ora, le retrovie non esistono.

Teheran lo ha detto chiaramente: in caso di attacco da parte degli Stati Uniti, tutte le basi americane nel mondo saranno considerate target legittimi.

Tutte. Anche quelle in Italia.

A quel punto, chi risponderà del fatto che i radar anti-missile in uso in molte basi italiane non sono sotto comando nazionale?

Chi spiegherà ai cittadini che essere “Paese ospitante” non significa essere esenti da ritorsioni?

Chi si prenderà la responsabilità di non aver detto che, nell’attuale contesto operativo, i confini tra partecipazione e complicità si sono dissolti?

Il quadro normativo internazionale ci vincola, è vero.

L’Italia ha firmato il SOFA NATO, lo Status of Forces Agreement, che consente alle Forze Armate alleate di stazionare sul nostro territorio, secondo accordi bilaterali come quello con gli Stati Uniti del 1954, poi aggiornato nel 1995.

Ma la questione oggi non è solo giuridica: è politica, strategica e morale.

Perché consentire operazioni offensive da basi italiane, anche solo a livello di supporto, ci espone a rischi che non possiamo più ignorare.

È sufficiente osservare l’attuale dottrina iraniana per capire quanto la situazione sia seria.

La Repubblica Islamica non dispone solo di milizie proxy, ma di una rete missilistica in grado di colpire obiettivi a migliaia di chilometri di distanza.

La Guida Suprema iraniana Ali Khamenei ha minacciato di colpire le basi USA se Washington entrerà in guerra

Ha già dimostrato di saper usare droni d’attacco, cyber warfare e sabotaggio.

Le loro minacce non sono retorica: sono parte di una strategia dichiarata, documentata, ripetuta.

E intanto, mentre il nostro ruolo operativo cresce, non ci sono piani di evacuazione civile in caso di escalation, nessuna campagna pubblica di informazione, nessun dibattito aperto.

I centri decisionali militari italiani – da Poggio Renatico a Centocelle – sono allertati.

Il Ministero dell’Interno ha alzato il livello di sorveglianza in aeroporti e porti.

Ma tutto questo avviene in silenzio, nella convinzione che l’opinione pubblica non sia pronta, o peggio, non debba sapere.

Anche il campo economico riflette la tensione crescente.

I prezzi dei carburanti stanno salendo. I mercati energetici iniziano a prezzare la possibilità di un conflitto più ampio in Medio Oriente.

Una raffineria di petrolio

È sempre così: quando sale il rischio geopolitico, paghiamo subito in bolletta.

E ancora una volta, senza sapere davvero perché. Allora viene da chiedersi: possiamo continuare a raccontarci che siamo neutrali mentre mettiamo a disposizione il nostro spazio aereo e le nostre basi per missioni di strike o di intelligence?

Possiamo credere davvero che nessuno se ne accorgerà? Che nessuno reagirà? Che non ci sarà un ritorno, anche solo sotto forma di minaccia ibrida, di sabotaggio, di terrorismo?

La verità è che oggi essere parte della NATO non significa solo difesa collettiva: significa anche esposizione collettiva.

Significa essere dentro lo scenario, anche se nessuno lo vuole ammettere.

Significa che un attacco a una base americana in Italia non sarà percepito come “lontano”. Sarà qui.

E sarà troppo tardi per fingere sorpresa.

Chi, oggi, ha il coraggio di porre queste domande in Parlamento? Chi informa i cittadini sul reale stato della nostra sicurezza nazionale?

Chi ha valutato il rischio reale che il nostro territorio diventi, suo malgrado, il primo anello di una catena di ritorsioni?

È tempo che la narrazione ufficiale venga aggiornata.

Che si riconosca ciò che tutti, nel settore della Difesa, sanno: l’Italia è già parte dello scenario operativo.

E lo è non da oggi, ma da tempo.

La differenza è che oggi lo scenario è instabile, infiammabile, potenzialmente globale.

La neutralità è una comoda illusione. Ma nel 2025, mentre aerei militari decollano ogni giorno dalle nostre basi, quella illusione rischia di costarci cara.

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

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