Guerra Israele-Iran: profili di elevata uncertainty & unpredictability. Tutti i retroscena sul mancato accordo per il nucleare

Di Giuseppe Santomartino*

ROMA (nostro servizio particolare). La drammatica fase conflittuale fra Israele ed Iran avviata nella notte fra il 12 e 13 giugno va sempre più presentando profili di elevata uncertainty & unpredictability. Qui alcuni sintetici elementi di analisi che forse, nella cacofonia di opinioni che stiamo subendo da giorni, non hanno trovato adeguato risalto.

Un attacco su Teheran

 

Breve storia del nucleare iraniano

Il programma nucleare iraniano parte su spinta USA nel 1957, epoca dello Shah.

Gli sviluppi dalla fine del secolo scorso hanno poi suscitando sempre maggiori preoccupazioni nel mondo, in particolare in Israele, e conseguenti sanzioni nei confronti dell’ Iran.

La sede dell’AIEA

 

Nel 2015 si arriva al Joint Comprehensive Plan Of  Action ( JCPOA) , comunemente citato quale “Accordo sul Nucleare Iraniano”, sottoscritto da Iran, USA, Russia, Cina e Paesi europei, con cui Teheran, in cambio dell’ allentamento delle sanzioni, accettava di limitare i propri programmi nucleari e soprattutto accettava di sottoporsi ad un regime di ispezioni ( definito dalla stessa AIEA il “regime di verifica nucleare più rigoroso al mondo”).

Sempre l’AIEA )Agenzia internazionale per l’energia atomica) nel 2018 ricordava che l’ Iran aveva sino ad allora rispettato gli impegni in materia e che ove l’ “Accordo JCPOA dovesse fallire rappresenterebbe una grave perdita per la verifica nucleare e per il multilateralismo”.

Il Presidente americano Donald Trump contro l’Iran

Purtroppo invece nel 2018 il Presidente Trump decide unilateralmente di ritirarsi dal JCPOA a seguito anche di pressioni israeliane.

Decisione che fu fortemente criticata dai Paesi europei.

Di fatto da allora, ed in particolare dopo l’ uccisione del Generale Suleimani del gennaio 2020 decisa dagli USA,  l’ Iran si è sentita svincolata dagli impegni sottoscritti nell’Accordo ed ha ripreso il proprio programma di arricchimento limitando ogni forma di collaborazione in materia.

Non vi è alcun dubbio che la rottura unilaterale del JCPOA sia stato un grave errore poiché era uno strumento che, seppure in un regime di compromessi (ma le Relazioni Internazionali si basano sui compromessi), stava funzionando garantendo sistematici controlli ai programmi nucleari iraniani.

I firmatari del JCPOA nel 2015

 

Oggi, molti, fra cui lo stesso Trump, auspicano una riformulazione dell’Accordo del 2015.

Rapporto AIEA del 31  maggio, presunto “casus belli” e diritto internazionale

L’ intera vicenda ha avuto una svolta a fine maggio col Rapporto in cui l’ AIEA evidenziava una mancanza di cooperazione da parte iraniana, una rapid accumulation of highly enriched uranium”,concludendo che Unless and until Iran assists the Agency in resolving the outstanding issues, the Agency will not be in a position to provide assurance that Iran’s nuclear programme is exclusively peaceful.”

Tali indicazioni hanno suscitato comprensibili preoccupazioni perché ritenuti associabili ad un uso militare del nucleare, ma, va ben precisato, il Rapporto AIEA non fa alcuna menzione del raggiungimento di una capacità militare nucleare e tanto meno di capacità di imminenti attacchi nucleari da parte iraniana.

Qui va chiarito che la disponibilità di uranio arricchito anche a livelli superiori all’ 85%, non implica automaticamente l’ immediata capacità di impiego militare in quanto sono poi necessarie le fasi di cosiddetta weaponization  (fasi che consentono la produzione in quantità adeguata di uranio arricchito e la conseguente associazione a piattaforme militari ed unità di lancio).

Circa il reale livello di weaponization raggiunto dall’ Iran a oggi vi sono poche informazioni ed alquanto contraddittorie: alcune fonti hanno parlato di mesi per la produzione di almeno 9 testate, ma non risultano fonti o dichiarazioni ufficiali che abbiano confermato la imminente capacità di testate nucleari pronte per l’ impiego.

Molto importante dal punto di vista strategico la questione del nucleare iraniano

 

Ieri, poi la CNN ha riferito che “US Intel says it [Iran] was years away” sulla base di una testimonianza di T. Gabbard (US Director  of National Intelligence) del marzo  2025, cui, sempre da fonti CNN, Trump non avrebbe dato adeguato credito. Va infine ricordato che mentre l’ Iran ha aderito al Trattato di Non Proliferazione Nucleare del 1970, Israele, pur disponendo di armi nucleari, non vi ha mai aderito.

Il “casus belli” di esigenze di “difesa” (sempre impregiudicate per qualsiasi Stato) invocato da Netanyahu per l’attacco della notte fra il 12 e 13 giugno appare quindi non riscontrare le condizioni previste dalla Carta dell’ ONU, fonte primaria di diritto internazionale, art. 2 e 51 (che riconosce il “diritto naturale di autotutela” ma solo nel caso di attacco armato) né con alcune interpretazioni “estensive”, peraltro minoritarie e controverse, di tale articolo in caso di attacchi “imminenti”. Va infine ricordato che il 15 giugno, cioè due giorni dopo l’ attacco, era finalmente prevista e confermata da tutte le parti la ripresa dei colloqui per la riformulazione dell’ Accordo sul Nucleare.

In generale questa, come altre vicende recenti (ad esempio l’ invasione dell’ Ucraina) conferma, purtroppo, una progressiva e forse irreversibile delegittimazione degli strumenti della Carta ONU in materia di prevenzione dei conflitti.

L’ arbitrario ricorso unilaterale a dottrine di Pre-emptive o Preventive War  basate spesso solo su “percezioni di profili di minaccia”, oltre a non aver sinora mai risolto alcun contenzioso o crisi, costituisce ad un tempo causa, effetto e comodo alibi di tale delegittimazione e andrebbe quindi sempre condannato e sanzionato.

Ipotesi “regime change” ed eliminazione di Khamenei

Da alcuni giorni leggiamo con sempre maggiore frequenza ipotesi di iniziative tese a promuovere un “regime change” in Iran. Ora, pur premettendo che l’ attuale regime presenta note “criticità” e non è certo al top delle simpatie mondiali, occorre porre alcune riflessioni critiche:

    • La tendenza, da bocciare a priori, di alcuni leaders politici ad arrogarsi la facoltà di stabilire se il regime di uno Stato sovrano avversario sia legittimo o meno e vada quindi rovesciato; tale tendenza poi rasenta il grottesco quando queste decisioni vengono da leaders che già nei propri paesi non costituiscono esempi di tutela della democrazia e dei diritti civli
    • Le iniziative negli ultimi decenni nel Medio Oriente “allargato” tese a cambiare regimi o “decapitare” leadership che non ci piacevano hanno sempre avuto esiti di medio-lungo termine peggiori delle situazioni che si intendeva risolvere, basti pensare a: Iraq nel periodo 2003-2013 fino alla nascita dell’ ISIS, Afghanistan dove dopo 20 anni abbiamo un governo Talebano ed una notevole presenza dell’ IS-K ex ISIS, Siria e Libia dal 2011 a tutt’oggi, IS ex ISIS ed al-Qa’idah che dopo le ipercelebrate decapitazioni dei rispettivi leaders storici (Osama   Bin Laden e al-Baghdadi) hanno espresso una notevole espansione con robusti Wilayat affiliati dall’ Africa all’ Asia Centrale. Tali elementi vanno poi associati ad una onesta constatazione dei fallimenti delle varie ambizioni di State Building nei relativi scenari. Una replica di tali esiti e fallimenti in un paese dalla enorme complessità demografica, economico-commerciale, geopolitica quale l’ Iran potrebbe avere impatti devastanti non solo per l’area ma a livello globale, fra cui l’espansione dell’ IS-K (Islamic State Khurasan), che da anni non aspetta altro, nell’ Iran orientale
    • Infine una riflessione sulla valutazione del premier Netanyahu, secondo cui “L’ uccisione di Khamenei metterebbe fine al conflitto”; ora, a parte ogni considerazione di carattere etico e giuridico ed una veloce rilettura storica dei disastrosi precedenti di Saddam e Gheddafi, qui va ricordato che nel caso specifico di Khamenei si rischierebbe di farne uno uno Shahid (Martire ) del Jihad, poiché il martirio, già concetto base dello sciismo fin dalle origini, diventa categoria centrale nel pensiero dello sciismo politico del XX secolo; l’ eliminazione di Khamenei avrebbe quindi, fra l’ altro, enormi effetti sul piano identitario e mobilitante, rafforzando quindi la percezione di un contesto del Jihad globale, e non solo nel mondo sciita, complicazione geopolitica di cui decisamente non si sente il bisogno.

Un rapido cenno finale a quella che forse è la pluriennale criticità primaria della situazione attuale: un consolidato “lack of understanding” delle complesse valenze geopolitiche dello sciismo politico nel XX secolo (alla base della Rivoluzione Iraniana, la più importante rivoluzione del XX secolo, poco capita dalle Intelligence occidentali sin dai primordi, vedasi specifico Rapporto CIA desecretato 30 anni dopo) e conseguentemente una diffusa miopia epistemologica, prima che analitica, del Mihwar al Muqawamah ( da noi malamente tradotto in “Asse di  Resistenza” a guida iraniana – vedasi un mio articolo su queste pagine del 2024) che fra l’altro è proiettato al medio lungo termine, prescinde da valutazioni tattiche di breve periodo, vede il Jihad quale strumento di erosione della volontà nemica e mira a sfruttare l’ asimmetria nelle capacità militari a proprio vantaggio. Le azioni di Ansar Allah ( noto come Gruppo Houthi) ne sono solo un esempio.

*Generale di Divisione ( ris). E’ laureato in Scienze Strategiche e Scienze Politiche – Indirizzo islamico presso l’Istituto Universitario Orientale,. E’ stato Addetto per la Difesa presso le Ambasciate in Amman e Baghdad, capo delegazione italiana presso lo US Centcom e capo Dipartimento presso l’European Union Military Staff in Bruxelles. Ha pubblicato testi sul Jihadismo e la geopolitica del XXI secolo. E’ docente di Intelligence presso la facoltà di  Science Politiche dell’ Università della  Tuscia e presso il Master di Intelligence dell’ Università di Udine.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna in alto