Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. In guerra, la verità muore per prima, come ci ricorda Eschilo.
Ma subito dopo, e con ancor più silenzio, muore l’innocenza.

Muore nei corpi fragili dei bambini colpiti dai bombardamenti, nei rifugi sotterranei dove non si dorme da settimane, nelle scuole ridotte in polvere. Muore nel silenzio delle cancellerie internazionali, nei linguaggi neutralizzati delle diplomazie, nelle risoluzioni ONU mai rispettate.
La guerra, ogni guerra, è un patto con la disumanizzazione.
E la disumanizzazione inizia dove finisce il diritto.
In teoria, il diritto umanitario internazionale dovrebbe proteggerci da questa deriva.
Le Quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e i loro Protocolli Addizionali proibiscono espressamente gli attacchi contro i civili, garantiscono protezione ai minori, vietano l’uso della fame come metodo di guerra, impongono l’obbligo di cure mediche ai feriti e ai malati, compresi i bambini.
L’articolo 77 del Primo Protocollo Addizionale sottolinea che i bambini devono essere oggetto di rispetto speciale e devono essere protetti contro qualsiasi forma di attacco.
Anche la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia del 1989, ratificata da quasi tutti gli Stati del mondo (con l’eccezione degli Stati Uniti), riconosce ai minori il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo.
La Carta delle Nazioni Unite vieta l’uso della forza se non in autodifesa o con mandato del Consiglio di Sicurezza.
Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale considera crimini di guerra gli attacchi deliberati contro la popolazione civile e l’impiego di bambini soldato.
Eppure, oggi, quei principi giacciono calpestati nel fango delle guerre contemporanee. Gaza: oltre 15 mila bambini uccisi in meno di un anno, secondo fonti ONU.
Scuole, ospedali e convogli umanitari colpiti sistematicamente, in un contesto in cui l’assedio totale – vietato dal diritto internazionale umanitario – viene condotto come strategia deliberata.
Ucraina: migliaia di minori uccisi o deportati, in violazione dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta il trasferimento forzato di popolazioni civili dai territori occupati. La Corte Penale Internazionale ha già emesso un mandato di arresto contro il presidente russo per la deportazione illegale di bambini ucraini.

Sudan: in Darfur e nelle regioni meridionali, milizie armate e truppe governative compiono massacri etnici con violenze sessuali sistematiche anche contro minori, violando apertamente la Convenzione per la Prevenzione del Genocidio.

Siria: bombardamenti indiscriminati su aree residenziali, uso di armi chimiche, blocchi umanitari e assedi urbani hanno fatto della popolazione civile un bersaglio legittimo.

Yemen: una delle peggiori crisi umanitarie del mondo.
Secondo l’ONU, la coalizione a guida saudita ha colpito ospedali, mercati e scuole, causando la morte diretta o indiretta di decine di migliaia di bambini.
L’embargo imposto ha aggravato la carestia e la diffusione di malattie prevenibili, rendendo la fame stessa un’arma di guerra.

Myanmar: dopo il colpo di Stato del 2021, i militari hanno lanciato operazioni di “pulizia” contro minoranze etniche, come i Rohingya, in violazione del diritto consuetudinario e delle convenzioni contro la discriminazione e il genocidio. I bambini sono stati bersaglio di violenze, mutilazioni, arresti arbitrari.

Etiopia: nella guerra del Tigray, l’utilizzo sistematico dello stupro come arma di guerra e il blocco dell’accesso umanitario hanno prodotto centinaia di migliaia di vittime civili, molte delle quali bambini.
Questo non è un bilancio del passato: è una cronaca attiva.

Ogni giorno, nei cieli solcati da droni, nei corridoi umanitari chiusi, nei campi profughi sovraffollati, muore l’infanzia del mondo.
Non simbolicamente, non retoricamente.
Muore nel senso biologico e assoluto del termine. E muore anche qualcosa dentro di noi, ogni volta che scorriamo – senza più reagire – le foto dei piccoli corpi allineati su coperte, sui pavimenti, nelle tende di fortuna.
Il disinteresse con cui si osservano queste immagini, il clic distratto che le fa sparire dallo schermo, è un sintomo dell’aberrazione più profonda. Non si tratta solo di morte, ma della nostra capacità collettiva di assuefarci all’orrore. Di perdere empatia. Di trasformare il dolore in sfondo.
Ogni fotografia che non ci lacera più è una sconfitta morale. E con essa muore una civiltà che si proclama giuridica ma tollera l’impunità. Il principio di “Responsabilità di Proteggere” (R2P), elaborato nel 2005 per prevenire genocidi e crimini contro l’umanità, resta una dottrina spesso invocata e quasi mai attuata.
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è paralizzato dal veto dei membri permanenti, che usano la diplomazia per coprire interessi nazionali e alleanze strategiche, anche davanti a massacri evidenti. Questa selettività dell’indignazione è un veleno sottile. Perché, a seconda del conflitto, alcune vite valgono più di altre.

Alcune vittime vengono pianti con editoriali, altre scompaiono in silenzi burocratici.
La gerarchia del dolore mina le fondamenta dell’universalismo dei diritti umani. La retorica della “guerra giusta” ha ceduto il passo a una guerra normalizzata, dove le vittime civili sono considerate “effetti collaterali” e le violazioni sistematiche del diritto vengono chiamate “errori di valutazione”.
I confini tra militare e civile, tra strategico e barbaro, si sono dissolti.
Il linguaggio tecnico della geopolitica, quando non include l’etica, diventa complice della distruzione.
L’analista, lo stratega, il diplomatico: tutti hanno oggi una responsabilità di testimonianza.
Perché la guerra moderna non è solo missili e territori: è narrazione. E chi controlla il racconto, controlla anche la legittimità dell’orrore.
Oggi, l’umanità ha bisogno di un salto di coscienza. Serve un ritorno alle fondamenta: la sacralità della vita civile, soprattutto dei più vulnerabili. I bambini non sono soggetti neutri. Sono il nostro futuro, e quando vengono uccisi, la guerra non sta solo distruggendo vite: sta cancellando possibilità.
Ogni infanzia spezzata è una generazione amputata, un’economia futura distrutta, una società condannata a ripetere il trauma. Se davvero vogliamo una geopolitica lucida, essa non può ignorare l’umano. I trattati vanno difesi, le convenzioni rispettate, ma soprattutto: le coscienze devono restare vigili.
Nel tempo della guerra permanente, in cui i conflitti diventano sfondo costante delle cronache, ogni voce che tace si fa colpa. Ogni occhiata altrove è una complicità silenziosa. Chi resta in silenzio, lascia che a parlare siano solo le armi.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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