Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. La Repubblica islamica dell’Iran ha parlato.
L’Occidente ha taciuto. Sharifeh Mohammadi sarà giustiziata.
Con una sentenza emblematica di una giustizia strumentalizzata, la Corte Suprema iraniana ha confermato la condanna a morte per impiccagione di Sharifeh Mohammadi, attivista sindacale curda di 38 anni, accusata del reato di moharebeh (محاربه) – letteralmente, guerra contro Dio – una fattispecie prevista dagli articoli 279-284 del Codice Penale islamico (versione del 2013), utilizzata in modo estensivo per reprimere forme di dissidenza politica e sociale.

Formalmente, il moharebeh si applica a chi “impugna le armi per seminare terrore o minacciare la sicurezza pubblica”; nella prassi, costituisce uno strumento giuridico arbitrario, impiegato per colpire oppositori politici, attivisti e minoranze etniche, in violazione dei principi fondamentali del giusto processo, come delineati dagli articoli 9, 14 e 19 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR), ratificato dall’Iran nel 1975.

Le accuse mosse contro Mohammadi – l’adesione a un sindacato indipendente e presunti legami con un’organizzazione curda separatista messa al bando – risultano vaghe e prive di riscontri processuali trasparenti.
Secondo le dichiarazioni rilasciate dal suo legale, la detenuta è stata sottoposta a torture fisiche e psicologiche presso il carcere di Sanandaj, capitale della provincia del Kurdistan iraniano, dove attualmente è reclusa in attesa dell’esecuzione, prevista entro i prossimi tre mesi.
L’assenza di un giusto processo, il ricorso sistematico alla tortura, la negazione dell’accesso effettivo alla difesa legale, configurano una violazione manifesta non solo del diritto internazionale, ma anche dei principi non derogabili (jus cogens) in materia di diritti umani.
La condanna capitale inflitta a Mohammadi non costituisce un caso isolato, ma l’ultimo episodio di una strategia di repressione sistematica condotta dalle autorità iraniane nella regione del Kurdistan.

Amnesty International, Human Rights Watch e la Kurdistan Human Rights Network (KHRN) hanno documentato nel tempo numerosi casi di esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari, processi irregolari e torture istituzionalizzate nella regione. Sanandaj è diventata un simbolo della repressione penitenziaria e del controllo securitario applicato contro le minoranze etniche.
Ciò che rende Mohammadi “pericolosa”, agli occhi del regime, non è il possesso di armi, bensì la costruzione di reti di solidarietà tra lavoratori, l’attivismo sindacale indipendente, la partecipazione politica dal basso.

Il suo profilo – donna, curda, organizzata e non allineata – incarna tutto ciò che l’apparato teocratico considera intollerabile.
Nel contesto internazionale, l’inerzia dell’Unione Europea e degli Stati occidentali assume contorni gravi.
Non si rilevano azioni diplomatiche concrete, né sanzioni mirate, né richiami ufficiali degni di rilievo.
Le reazioni sono limitate a comunicati di ONG e dichiarazioni simboliche, incapaci di esercitare una pressione efficace sul governo iraniano.
La selettività dell’indignazione occidentale è sempre più evidente: i diritti umani sembrano assumere rilevanza solo quando coincidono con obiettivi strategici, economici o comunicativi. Sharifeh Mohammadi non è figura “spendibile” nel mercato mediatico e pertanto viene ignorata.
Non ci saranno manifestazioni globali, né mobilitazioni virali. L’assenza di reazione equivale a complicità.
Nel frattempo, l’Iran rafforza la propria posizione sul piano geopolitico: intrattiene relazioni strategiche con i talebani, finanzia Hezbollah, interviene in Siria e Yemen, ha riattivato il dialogo con l’Arabia Saudita sotto l’egida cinese, rafforza l’asse con la Federazione Russa e mantiene un rapporto ambiguo con Bruxelles.
La questione nucleare viene sistematicamente utilizzata come leva negoziale con Washington, mentre sul fronte interno il potere si consolida tramite la repressione mirata dei nuclei potenzialmente disgreganti, in particolare quelli etnici, sindacali e femminili. L’esecuzione di Mohammadi non rappresenta solo una pena capitale: è un atto politico, un messaggio intimidatorio, parte integrante della dottrina della deterrenza repressiva applicata dal regime.
L’obiettivo non è solo punire, ma dissuadere, smantellare, disintegrare ogni forma embrionale di opposizione organizzata.
Le azioni per cui è stata condannata – associazione sindacale, partecipazione politica, libertà d’espressione – sono, secondo il diritto internazionale, diritti fondamentali inalienabili.
La loro criminalizzazione, seguita da un’esecuzione capitale, rappresenta un crimine di Stato. Sharifeh Mohammadi non può essere relegata a una statistica nella repressione iraniana. Il suo nome deve essere pronunciato, la sua causa deve essere internazionalizzata. L’indifferenza attuale è il riflesso di un Occidente che ha smarrito la propria identità democratica, divenuto selettivamente cieco e prigioniero del calcolo geopolitico. Questa esecuzione non farà breaking news, non scuoterà i mercati, non sposterà equilibri al G7 o alla NATO. Ma rappresenterà un’ulteriore faglia morale in una civiltà che ha smesso di riconoscersi nei diritti degli oppressi.
Il vero patibolo non è solo a Sanandaj. È nella coscienza collettiva, intorpidita, strategicamente miope.
E, in ogni ora che passa senza una risposta, ci rendiamo corresponsabili.
Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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