Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. “Era impossibile guardare verso Hiroshima. Il bagliore era più forte del sole”.
Così racconta un sopravvissuto alla mattina del 6 agosto 1945.

Quelle parole non sono solo una testimonianza, ma una soglia: quella che separa la storia precedente dall’inizio di un’era nuova, l’era nucleare.
In pochi secondi, la prima bomba atomica utilizzata in guerra cancellò un’intera città, uccise circa 140 mila persone nel primo anno e cambiò per sempre il rapporto dell’umanità con la tecnologia, con la guerra e con sé stessa.
Ottant’anni dopo, Hiroshima non è un evento passato.
È un avvertimento che continua a vibrare sotto la superficie della politica internazionale, un’eco che si insinua nei corridoi delle diplomazie, nei laboratori dove si sviluppano nuovi ordigni, nei server che gestiscono le catene di comando automatizzate. Non è un semplice ricordo, ma una ferita aperta nell’etica del nostro tempo.
Ci piace raccontare Hiroshima come un’eccezione irripetibile, relegata nel tempo e giustificata dalla necessità storica.
La narrazione dominante, quella che ha accompagnato generazioni intere, parla di una scelta difficile ma obbligata: la bomba come unica via per porre fine alla Seconda guerra mondiale.
Ma questa spiegazione non regge più, nemmeno nei circoli strategici più realisti.
Hiroshima non fu una necessità militare. Fu un messaggio geopolitico.
Un’azione studiata per mostrare, al mondo e in particolare all’Unione Sovietica, il potere assoluto di cui disponevano gli Stati Uniti.
Non un atto conclusivo, dunque, ma l’inizio di un nuovo ordine mondiale: un ordine fondato non sulla forza, ma sulla minaccia della forza assoluta. Da quel momento, l’umanità ha vissuto sotto il paradosso della deterrenza nucleare. Una logica che si basa sull’idea che il pericolo stesso della distruzione totale garantisca la pace.
Ma in realtà si tratta di un compromesso etico: un equilibrio costruito sull’orlo dell’abisso, una coesistenza forzata alimentata dalla paura, non dalla cooperazione.
La deterrenza è considerata un successo finché nessuno osa usare l’arma, ma questa illusione regge solo fino a quando l’errore, il fraintendimento o il malfunzionamento non ci trascinano oltre la soglia.
E oggi quella soglia è più sottile che mai.
La proliferazione non si è mai fermata. Le testate nucleari esistenti sono più di 13 mila.
Le tecnologie si evolvono. Le cosiddette “mini-nukes” vengono presentate come armi “tattiche”, meno distruttive, più “gestibili”.
L’intelligenza artificiale inizia a essere integrata nei sistemi di comando e controllo. E con essa, cresce l’angoscia di un futuro in cui decisioni irreversibili possano essere prese da algoritmi non soggetti a ripensamenti umani. La verità è che la deterrenza non ha impedito la corsa agli armamenti: l’ha resa permanente.
Mentre si parla di pace, gli arsenali si rinnovano. Le cinque potenze nucleari permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia – continuano a modernizzare le proprie capacità nucleari, predicando al contempo il disarmo.

Si esercitano in scenari di impiego selettivo, mentre denunciano la proliferazione altrui.
L’Iran viene sorvegliato, la Corea del Nord minacciata, mentre si mantiene il silenzio sull’arsenale israeliano o sull’ambiguità delle politiche nucleari di India e Pakistan.

Gli Stati Uniti conservano testate in Europa, attraverso il meccanismo della “nuclear sharing”, che coinvolge anche Paesi formalmente non nucleari come l’Italia.
È un segreto di Pulcinella: tutti lo sanno, nessuno lo dice.
L’esistenza stessa di questo doppio standard mina la credibilità del sistema internazionale e svuota la parola “disarmo” di qualsiasi significato autentico.
In questo contesto, Hiroshima viene commemorata ma raramente compresa.
La memoria viene evocata ogni 6 agosto con cerimonie silenziose, discorsi istituzionali, minuti di raccoglimento.
Ma la domanda cruciale viene evitata: perché, 80 anni dopo, le armi nucleari esistono ancora? Perché continuiamo a considerarle strumenti legittimi, se non addirittura necessari, di politica internazionale?

La risposta, se la si cerca con onestà, è inquietante. Non abbiamo mai davvero fatto i conti con Hiroshima. Abbiamo pianto i morti, ma non abbiamo condannato esplicitamente l’atto.
Abbiamo costruito la pace sul terrore, anziché sulla responsabilità. Hiroshima è diventata un simbolo astratto, depurato dal suo significato politico.
La si ricorda per ammonire, non per accusare. Per evocare la pace, senza mettere in discussione il potere. Eppure, non è solo la memoria che continua a bruciare.
È la coscienza globale, rimasta sospesa, congelata nel trauma atomico mai elaborato. Hiroshima rappresenta l’origine di un peccato fondativo mai esplicitamente riconosciuto, e dunque mai espiato.
Non si tratta di idealismo, ma di lucidità. Se Hiroshima ci ha insegnato qualcosa, è che l’irreparabile non è ipotetico: è già accaduto.
E accadere di nuovo è solo una questione di errori, calcoli sbagliati o decisioni scellerate.
Parlare oggi di sicurezza globale senza affrontare il nodo nucleare equivale a costruire sulla sabbia. Continuare a giustificare l’esistenza di armi capaci di distruggere la civiltà umana con la logica della deterrenza è una forma di dissonanza cognitiva collettiva.
È una fede cieca, travestita da razionalità strategica.
Ogni 6 agosto, alle 8.15 del mattino, Hiroshima si ferma per un minuto di silenzio.
Ma quel silenzio dovrebbe risuonare ben oltre le sue strade.
Dovrebbe penetrare nei comandi militari, nei laboratori dove si sviluppano nuove testate, nei parlamenti che autorizzano bilanci miliardari per il riarmo, nelle università dove si insegnano le dottrine strategiche. Dovrebbe giungere nei think tank, nei centri di ricerca, nei tavoli della diplomazia.
Non per pietà, ma per coscienza. Non per onorare i morti, ma per riconoscere ciò che li ha uccisi.
Per comprendere che Hiroshima non è una reliquia del passato, ma una verità scomoda che ancora ci interroga. Il mondo non può chiedere a Hiroshima di fare pace con la storia. È il mondo che deve fare pace con ciò che ha fatto a Hiroshima. E, soprattutto, con ciò che continua a preparare.
Chi oggi esercita il potere con l’arma atomica in tasca dovrebbe essere obbligato a camminare tra le rovine di quella città. Non per rispetto. Ma per capire il prezzo reale del potere.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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