Di Pierpaolo Piras
Hong Kong. Il 1°luglio scorso, 22° anniversario del ritorno di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese, alcune centinaia di migliaia di abitanti, in maggioranza giovani, sono tornati sulle strade di Kowloon, area più urbanizzata della ex colonia inglese.

Una manifestazione di protesta ad Hong Kong
In apparenza, il “casus belli” della protesta riguardava l’applicazione di una legge, voluta da Pechino, che permetterebbe l’estradizione dal territorio di Hong Kong verso i tribunali penali controllati dal Partito Comunista cinese, dove il sistema giudiziario utilizza ancora le confessioni forzate (anche con la tortura fisica) e le detenzioni arbitrarie.
Appare, invece, molto più importante il contesto politico-ideologico nel quale si stanno svolgendo queste periodiche sommosse spontanee, fin dal 1° luglio 1997, data nella quale l’isola di Hong Kong ritornò alla sovranità cinese.
La parte più concretamente normativa è stata sancita nel 1984, In quell’occasione era stato previsto che Hong Kong sarebbe dovuta rientrare nella sovranità cinese nel 1997, secondo il particolare principio del “un Paese, due sistemi”. Godendo di un ampio grado di autonomia, ad eccezione degli affari internazionali e della difesa nazionale.
Invece, tra infiniti e pretestuosi rinvii, la riforma democratica ha stentato ad affermarsi, iniziando dall’elezione diretta, a suffragio universale, delle supreme cariche legislative. Attualmente, il capo del governo locale, Carrie Lam, è una sorta di “amministratore delegato”, eletto da 1.200 membri di un comitato elettorale la cui maggioranza è, tuttavia, nominata da Pechino.

Ad Hong Kong si è creata una forte opposizione di pizza contro i cinesi
Il malcontento di base della popolazione, specie giovanile, che non vede speranze, è che, se da un lato gode della libertà sia parola che di stampa, dall’altro gli viene negato il diritto di elezioni democratiche, le stesse che garantirebbe gli strumenti politici legittimi e più efficaci per cambiare positivamente le cose in senso pienamente libero e democratico.
E la Cina cosa dice?
Pechino condanna fermamente i tumulti di piazza e approva l’uso repressivo sia delle manganellate a volontà che dei gas lacrimogeni nei confronti dell’inerme popolazione.
In realtà, il Governo cinese gode finanziariamente delle ricche entrate provenienti da Hong Kong, ma il suo malcelato incubo politico è che le idee liberali e democratiche, tipiche dello Stato di diritto, possano diffondersi in tempi brevi all’interno del proprio territorio metropolitano, dove , già da tempo, covano fermenti politici di non poco conto (vedasi gli episodi storicamente avvenuti in Piazza Tienanmen a Pechino, nel 1989!).
Per la Cina è di gran lunga più sicura e conveniente l’integrazione di Hong Kong al sistema cinese. Pechino lo sta già perseguendo, un po’ con l’arroganza tipica di tutte le dittature, compresa quella comunista, e poi con l’asservimento della dirigenza hongkonghese alla propria volontà politica.
Qualcuno avanza il pericolo di una repressione militare che però avrebbe ripercussioni insopportabili a livello internazionale. Ma se l’opposizione durasse anche in questa tragica soluzione?
La componente più dura da convincere sarà quella dei giovani che in caso di “comunistizzazione”, anche se strisciante, della società, meditano già da ora la necessità di andarsene quanto prima da Hong Kong.
Il gruppo politico dominante a Pechino e facente capo a Xi Jinping, gioca rischiosamente con la sua credibilità internazionale sia per la cruciale importanza di Hong Kong nell’ambito della “via della seta” che per l’ennesimo scontro che va evidenziandosi non tanto tra due civiltà, ma bensì tra due ideologie, ovvero tra il comunismo illiberale e autoritario in contrapposizione alla democrazia basata sullo stato di diritto ed il rispetto assoluto delle libertà individuali.
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