Di Antonio Li Gobbi*
MIGNANO MONTELUNGO (CASERTA) – nostro servizio particolare. Un piccolo fatto d’armi totalmente irrilevante nel quadro della “Campagna d’Italia” alleata e di cui nessun testo di storia che non sia italiano fa menzione.
Una modesta altura (351 metri sul livello del mare) situata a sbarramento della depressione di Mignano, posta tra la Casilina e il modesto fiume Peccia, sulla via per Cassino.
Su questa altura rocciosa, priva di coperture e di appigli tattici, nella mattina dell’8 dicembre 1943 si schiantò il primo timido tentativo delle Forze Armate italiane di qualificarsi come potenziali forze “cobelligeranti” degli Alleati e non solo come “lavoratori in divisa”.
Come “soldato di carriera” e, soprattutto, con il senno del poi e dal calduccio del mio studio, potrei facilmente muovere pagine e pagine di argomentate contestazioni “tecnico-militari” su come quell’azione sia stata pianificata e condotta e su come il “I Raggruppamento Motorizzato” (che motorizzato in effetti non era per niente) fosse stato approntato per quell’azione.
Ma non c’ero io in quel freddo inverno a tentare di coordinarmi con Alleati che, giustamente, guardavano quei soldati con diffidenza considerandoli più un peso che un aiuto.
Nonostante indubbi episodi di valore, la condotta delle operazioni italiane in Africa Orientale e Settentrionale avevano dimostrato agli anglo-americani le carenze organizzative, di armamenti e logistiche del nostro Esercito.
La fallimentare gestione politica dell’8 settembre 1943 non aiutava certamente a garantirci considerazione.
Armamento ed equipaggiamento di quei soldati italiani appena giunti dalle retrovie non era paragonabile a quello degli Alleati.
Inoltre, comprensibilmente, gli anglo-americani non si fidavano né dei nostri ufficiali né dei nostri soldati.
Alle 6.20 di un freddo e nebbioso giorno dell’Immacolata, sulla base di informazioni risultate poi molto parziali se non addirittura incorrette, senza alcuna conoscenza del terreno (non erano state condotte le necessarie ricognizioni preventive) e privi del necessario supporto di fuoco d’artiglieria (per motivi che non è il caso in questa sede di approfondire) il I battaglione del 67° Fanteria e il LI Battaglione Allievi Ufficiali dei Bersaglieri furono lanciati in un attacco generoso e disperato.
Attacco che era inevitabile che fallisse.
IL CONTESTO SOCIO CULTURALE NEL QUALE COMBATTERONO I SOLDATI
Ma quale era il contesto in cui quei soldati andavano a combattere e a morire sulle nude e rocciose pendici di una oscura montagna di cui mai prima di allora avevano sentito il nome?
Soldati, ricordiamolo, alcuni dei quali ancora con le uniformi estive, con armamenti decisamente inferiori a quelli sia degli Alleati che dei tedeschi, espressione di una Nazione sconfitta, derisi dalle decine di migliaia di connazionali “furbi” che si imboscavano, accusati dai “radical chic” dell’epoca trincerati nei loro comodi salotti di essere “servitori” di un “Re fuggiasco”!
Questo il contesto socio culturale in cui quei giovani soldati scelsero di combattere.
Politicamente, all’epoca, non vi era un interesse da parte degli Alleati a riconoscere al poco credibile governo di Brindisi alcun ruolo di “cobelligeranza”.
Militarmente, in quelle fasi, non vi era neanche un’esigenza di unità combattenti italiane.
Addirittura, secondo alcuni storici militari “Agli Alleati non interessava risalire l’Italia. Forse interessava a Churchill, ma ciò era poco influente rispetto agli obiettivi che venivano determinati nelle riunioni di coordinamento fra i membri della coalizione” [1].
In quest’ottica agli Alleati sarebbe stato sufficiente attestarsi lungo l’allineamento Napoli – Foggia, in modo da condurre azioni di disturbo tendenti essenzialmente ad alleggerire la pressione tedesca in Francia.
Ciò nonostante, gli Alleati accettarono (con molte perplessità iniziali da parte dei loro Comandi militari) a partire da dicembre 1943 contributi limitati anche di forze operative.
Il primo esperimento consistette proprio nell’immissione in linea di un raffazzonato I Raggruppamento Motorizzato.
Come sappiamo, l’unità subì perdite ingenti nella prima battaglia di Monte Lungo (8 dicembre 1943), riuscendo però a conquistare la quota il successivo 16 dicembre.
A parte l’indubbio valore dei singoli soldati (in particolare dei giovani volontari del 51° Battaglione Allievi Ufficiali Bersaglieri, unità che non aveva alcuna esperienza di combattimento e che a mio avviso è stato scellerato mandare in linea con neanche 3 mesi di addestramento!) è innegabile che l’azione abbia messo in luce carenze di pianificazione e gravi lacune addestrative, logistiche e di inquadramento.
Checché si voglia dire di questa “prima battaglia”, la valutazione negativa della sua condotta è dimostrata anche dal fatto che subito dopo (24 gennaio 1944) il Comandante del Raggruppamento (Generale Cesare Vincenzo Dapino) fu sostituito.
Il nuovo Comandante, Umberto Utili, ufficiale molto stimato anche dagli Alleati e quasi idolatrato dai suoi soldati, procederà ad una radicale riorganizzazione della Grande Unità.
Particolarmente importante per la credibilità del soldato italiano di fronte agli Alleati risulterà la presa di Monte Marrone da parte del Battaglione Alpini “Piemonte” (31 marzo 1944).
La condotta dell’operazione ha rimarcato la capacità delle nostre truppe alpine di operare con tecniche ardite in montagna.
Capacità che gli Alleati non avevano e che si accorsero gli sarebbe servita sul fronte impervio italiano.
L’oscuro e in sé militarmente insignificante fatto d’armi dell’8 dicembre 1943, rappresenta il primo difficile passo di quella cobelligeranza che porterà gradualmente il contributo militare italiano ad essere sempre più importante nel contesto della “Italian Campaign” Alleata.
Campagna che per noi italiani rappresentava l’unico modo per giungere alla liberazione del territorio nazionale dall’occupazione tedesca.
LA COSTITUZIONE DEI GRUPPI DA COMBATTIMENTO
Si giunse così ad approntare 6 Gruppi da Combattimento (per motivi politici non li si volle chiamare Divisioni, ma erano in realtà delle classiche Divisioni “binarie”ovvero su due soli Reggimenti di Fanteria, un Reggimento d’Artiglieria, un Battaglione misto Genio e unità di supporto), per un totale, ciascuna di 9.500 uomini, equipaggiate e armate con materiali britannici, sicuramente superiori a quelli del Regio Esercito.
Quattro di questi Gruppi di combattimento (“Legnano”, “Folgore”, “Friuli” e “Cremona”) vennero impiegati negli ultimi mesi di guerra nelle operazioni che portarono allo sfondamento verso la pianura Padana.
Ad essi si deve aggiungere il ruolo determinante per consentire l’avanzata degli Alleati avuto dagli oltre 200 mila uomini delle nostre Divisioni Ausiliarie.
L’importante è che questi Reparti Operativi hanno saputo contribuire in maniera comunque significativa alla liberazione dell’Italia Settentrionale, dimostrando non solo l’eroismo individuale di cui il soldato italiano in più occasioni aveva dato prova anche in precedenza, ma anche la capacità di operare “come unità organiche” allo stesso livello degli alleati anglo-americani.
In conclusione, si era trattato per quei Soldati Italiani di “combattere” sia contro l’ex-alleato tedesco, che non perdonava quello che considerava un tradimento, sia contro i preconcetti del “nuovo” alleato anglo-americano, che inizialmente avrebbe voluto limitare il ruolo dei nostri combattenti per non riconoscere all’Italia vantaggi politici post-bellici.
Nei difficili sedici mesi intercorsi tra la caotica gestione dell’8 settembre e la completa liberazione del Paese, le “nuove” Forze Armate italiane arrivarono a contare più di mezzo milione di uomini (400 mila dell’Esercito, 80 mila della Marina, 35 mila dell’Aeronautica).
Non solo, i 6 Gruppi di Combattimento, ma anche reparti combattenti della Marina, dell’Aeronautica e le Divisioni Ausiliarie che furono essenziali per consentire alle Armate alleate di risalire la Penisola.
L’importanza non solo militare ma anche politica di tale impegno fu evidenziato nel mirabile intervento di Alcide De Gasperi alla Conferenza di Parigi [2].
Questo cammino è iniziato a Montelungo, nella solitudine che quei Soldati italiani sicuramente dovevano provare in quel momento.
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE CELEBRAZIONI DELL’80^ ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA
Mestamente, si è celebrato l’ottantesimo anniversario della battaglia.
Evento locale, quasi puramente militare, estraneo alla “narrazione” storica nazionale.
È venuto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per deporre in silenzio una corona d’alloro.
Quasi come per una funzione religiosa in occasione di un funerale. Silenzio e raccoglimento, senza neanche il calore di un’omelia che ricordasse l’evento, che ne spiegasse il significato, significato politico più che militare. Silenzio.
Silenzio nel 1943 e silenzio oggi.
Tra quelle croci e quelle tombe bianche, però, oggi non è più sufficiente limitarsi a ricordare solo quei giovani soldati che ottant’anni orsono scelsero di continuare a combattere, invece di andare a casa e nascondersi, come fecero molti loro connazionali.
Ritengo che sarebbe ormai necessario evidenziare come quello sia stato il primo passo di una Guerra di Liberazione che ci ha portato, come Nazione, ad essere tra i grandi Paesi democratici dell’Europa Occidentale e già nel 1949 ad essere accolti da pari nel contesto NATO, Alleanza politico-militare di cui l’Italia fu uno dei 12 Stati fondatori nel 1949 (da notare che alla Germania Ovest fu concesso di aderire alla NATO solo nel 1955, anche questo diverso trattamento potrebbe essere in parte dovuto all’impegno operativo delle nostre Forze Armate regolare nel biennio 1943-1945).
Ma il fatto d’arme di Monte Lungo non è entrato a far parte della “Storia” nazionale così come oggi questa ci viene tramandata, così come non ne sono entrati a far parte, più in generale, il contributo dei militari alla Guerra di Liberazione (nell’ambito dei reparti regolari) o della Resistenza (nell’ambito di formazioni di “patrioti” che combattevano per l’Italia e non per una parte politica, come Martini Mauri, Perotti, Montezemolo, i fratelli Di Dio, Beltrami, De Gregori, Del Din e innumerevoli altri).
Questi rappresentano dati di fatto scomodi, perché non strumentali ad una narrativa che ormai sembra essersi imposta.
Purtroppo, non pare sia ritenuto utile ricordare agli italiani che la Resistenza e la Guerra di Liberazione non furono soltanto la lotta tra chi aveva una visione dell’Italia asservita al disegno totalitaristico nazista (disegno già allora bocciato dalla Storia come dittatoriale e criminale) e chi aveva una visione dell’Italia asservita al disegno altrettanto totalitaristico sovietico, che sarebbe stato bocciato dalla Storia come altrettanto fallimentare e liberticida solo pochi decenni dopo.
L’Italia è stata liberata grazie al silenzioso e troppo spesso volutamente dimenticato contributo di sangue dei tanti che combattevano per un’Italia libera, un’Italia che rifiutasse sia la cultura del gulag, sia quella dei lager, come quei ragazzi caduti tra le nude pietre di una sperduta altura chiamata Monte Lungo di cui ancora oggi in Italia quasi nessuno conosce l’esistenza.
NOTE
[1] Claudio Magris: “Lo scenario strategico e le operazioni militari” – Atti del Convegno di Studi di Lucca (8-10 ottobre 1994) edito dal Centro Studi e Ricerche Storiche sulla Guerra di Liberazione di ANCFARGL
[2] Alcide De Gasperi il 10 agosto 1946, durante la Conferenza di pace di Parigi di fronte ai rappresentanti dei 21 Paesi qualificati come “vincitori” del conflitto, in merito al contributo italiano alla cobelligeranza, dichiarò : “Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del «Corpo Italiano di Liberazione», trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e last but not least dei partigiani, autori sopratutto dell’insurrezione del Nord. Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima e dopo la dichiarazione di guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza contare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento ed i 50 mila patrioti caduti nella lotta partigiana. Diciotto mesi durò questa seconda guerra, durante i quali i tedeschi indietreggiarono lentamente verso nord spogliando, devastando, distruggendo quello che gli aerei non avevano abbattuto”.
*Generale di Corpo d’Armata (ris) – Direttore Centro Studi e Ricerche Storiche Guerra di Liberazione di ANCFARGL
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