II Guerra Mondiale: l’Armistizio dell’8 settembre ha rappresentato un punto di svolta della politica estera e di sicurezza italiana

Roma. Oggi 8 settembre è il 77° anniversario della proclamazione dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati.

La firma dell’armistizio a Cassibile (3 settembre 1943)

Report Difesa ha intervistato il Generale di Corpo d’Armata (RIS) Antonio Li Gobbi, vicepresidente nazionale per l’Esercito dell’Associazione nazionale combattenti per la Guerra di liberazione (ANCFARGL) inquadrati nei reparti regolari delle Forze Armate.

Generale, 77 anni fa la storia, per il nostro Paese, cambiò con la firma a Cassibile dell’armistizio con gli Alleati. A distanza di tutto questo tempo è possibile, secondo lei, riscrivere una storia politico-militare sul quel periodo?

Non credo che la Storia vada riscritta, anche perché temo che nel riscriverla si rischierebbe ancora una volta il tentativo da parte di molti di leggerne gli eventi nell’ottica di supportare tesi precostituite (e questo da tutte le direzioni).

Penso solo che occorra sforzarsi di guardare gli eventi di quegli anni in maniera distaccata, evitando di vederli esclusivamente attraverso le lenti del preconcetto ideologico o della tifoseria da stadio.

Oggi non si tratta più di attribuire patenti di “buoni” o di “cattivi”  ma solo di cercare di capire  eventi che hanno profondamente inciso sulla vita sociale e  politica degli italiani. Quegli anni rappresentano delle ferite  della coesione nazionale che ancora non si sono del tutto rimarginate.

La notizia dell’armistizio un giornale dell’epoca

Ma l’8 settembre fu davvero la “morte della Patria”, così come lo ha definito Galli della Loggia, e come oggi sostengono in molti?

Personalmente non credo. L’8 settembre ha indubbiamente  segnato la fine di uno Stato (inteso come organizzazione statuale non come Nazione) e la drammatica perdita di credibilità della sua intera classe dirigente (e non mi riferisco solo a quella fascista, ma anche a quella monarchica).

Però l’8 settembre non ha assolutamente rappresentato la scomparsa della Nazione e della Patria.

Anzi, immediatamente all’indomani dell’8 settembre è iniziata, a Roma (con i combattimenti  di Porta San Paolo) e in tante altre parti del territorio nazionale, la riscossa del popolo italiano.

Un momento della battaglia di Porta San Paolo, a Roma, il 10 settembre 1943

Riscossa in cui gli uomini con le stellette hanno avuto un ruolo trainante, anche se troppo spesso volutamente sottostimato.

Potremmo dire, se ci piacessero i toni aulici, che l’8 settembre sia  iniziata una  “5^ guerra d’indipendenza nazionale”,  perchè, come le precedenti 4 combattuta contro un invasore straniero.

Infatti, anche se dopo l’8 settembre ’43 l’Italia intera era sotto occupazione militare straniera (anglo-americana o tedesca) e nessuno dei due governi “italiani” (di Brindisi e di Salò) godeva di vera autonomia [1] , per il sentimento popolare della gran parte degli italiani l’”occupante” era prioritariamente  quello tedesco.

Poi, certamente, ci  fu anche una guerra civile. Peraltro, tale guerra civile era prioritariamente il frutto di un conflitto tradizionale e “simmetrico” tra anglo-americani e tedeschi.

Il Paese (in seguito alla discutibile condotta della guerra sino al ’43) era diventato un campo di battaglia e ci  fu chi si schierò da una parte e chi dall’altra (oltre, diciamocelo, a tantissimi attendisti che non presero una vera posizione).

Certo una diversa gestione degli eventi del 25 luglio e dell’8 settembre avrebbe forse potuto prevenire la costituzione della RSI e, di conseguenza,  la “guerra civile”.

Come si caratterizzavano i due schieramenti?

Si caratterizzavano più sulla base dei loro alleati esterni (tedeschi e “nazioni unite”,  ovvero non solo anglo-americani ma anche sovietici)  che non sulla base di monolitiche concezioni ideologiche.

Le ideologie politiche erano diverse all’interno di entrambi gli schieramenti e nessuno dei due fronti era ideologicamente coeso (inoltre i fatti, soprattutto, nel nord-est del Paese [2] ci testimoniano che non c’erano solo due schieramenti, ma almeno tre).

Unità dell’Esercito regolare italiano entrano a Bologna (21 aprile 1945)

Anche per questo penso sia  semplicistica, in riferimento a periodo 1943-45, la schematizzazione  di “fascisti” e “anti-fascisti”: le sfumature erano molto più complesse e difficilmente comprensibili ad una lettura che non fosse veramente radicata in quel complesso periodo storico.

A maggior ragione falso etichettare tutti i combattenti contrari alla Germania e alla RSI come “comunisti”.

Comunque, nonostante non possano essere posti sullo stesso piano gli obiettivi politici per i quali chi  da una parte o dall’altre andò a combattere (che pur sommariamente ed in maniera che so essere imprecisa ed incompleta,  tenterei i riassumere in 3 grosse gruppi: un’Italia asservita all’ideologia nazista, un’Italia asservita all’ideologia sovietica e un’Italia che tentasse di riconquistare una posizione autonoma tra le potenze democratiche europee) ritengo che nell’Italia disillusa, frastornata, bombardata del ‘43, che usciva da una lunga serie di sanguinosi insuccessi bellici, chi fece la scelta  di non nascondersi in casa in attesa di vedere come sarebbero andate le cose, ma di rischiare in prima persona e di prendere ancora le armi per combattere per un’idea (qualunque questa idea fosse)  è degno di tutta la nostra  considerazione e,  se ha combattuto per tale idea con onore, di ammirazione,  da qualsiasi parte in quel momento si sia schierato.

Peraltro, la gestione dell’8 settembre ha profondamente influito sulla  successiva politica estera italiana.

Certamente. L’armistizio del 1943 ha indubbiamente rappresentato un punto di svolta della politica estera e di sicurezza italiana.

L’ambasciatore Pietro Quaroni nel 1967 scriverà : L’armistizio  del 1943 non è stato solo il crollo di tutta la politica estera italiana che, più o meno vagamente, era stata seguita in epoca  fascista,  è stato, se si vuole, il crollo di tutta la politica estera italiana che, più o meno vagamente, era stata seguita dal Regno d’Italia dal suo inizio” .

Il Prof Massimo de Leonardis nel 2014 scrisse: “Era la fine dell’Italia come Grande Potenza , un rango che era stato invece confermato  dalla vittoria nella Grande Guerra”.

Ancora più crudo, se mi è concesso il termine, è stato Sergio Romano che ha scritto: il 43 dimostrò che l’Italia non poteva badare da sola alla propria sicurezza”.

In quella che è stata da molti percepita come l’onta dell’8 settembre, ma che era in realtà l’onta di essersi impegnati in un conflitto che superava di gran lunga le nostre capacità  industriali, economiche e militari, va, a mio avviso , ricercato il folle rifiuto di accettare l’idea che anche l’Italia post- bellica avesse dei propri interessi nazionali, anche al di là dei nostri obblighi in ambito ONU e NATO.

Rifiuto che ha decisamente  caratterizzato la nostra politica di sicurezza sino all’inizio degli anni  ’80 e che culturalmente è comunque ancora molto radicato in Italia.

Infatti, ancora oggi sembra spesso che ci si vergogni di dover difendere i nostri interessi nazionali nel Mediterraneo o in Libia, come se tale necessario esercizio politica di sicurezza (che deve caratterizzare uno Stato degno di tale nome)  fosse moralmente riprovevole.

Tutti gli storici sostengono che l’Italia entrò in guerra senza una preparazione specifica, contando sull’alleato tedesco. Fu veramente così e quanto la politica dell’epoca ci mise le mani?

Beh mi pare che gli esiti del conflitto parlino da soli. Nonostante il comportamento spesso eroico dei nostri soldati è indubbio che ci si sia avventurati in troppe operazioni militari contemporanee per far fronte alle quali le Forze Armate italiane non erano state dotate di adeguate risorse.

Il richiamo quasi mistico agli “ottomilioni di baionette” sembra denotare una supervalutazione dell’aspetto quantitativo (numero di uomini in armi) rispetto a quello qualitativo (sistemi d’arma, organizzazione logistica, pianificazione)  e la concezione della guerra come insieme di lotte individuali ( la “baionetta”) anziché come confronto tra organizzazioni militari complesse.

D’altronde Mussolini non si era mai fidato dei militari “di professione”, preferendo invece l’esaltazione del “garibaldinismo eroico”, che in ambito militare spesso significa la fiducia che l’eroismo individuale possa compensare l’approssimazione nell’organizzazione della macchina bellica.

Approccio che può funzionare solo episodicamente. Peraltro, tale approccio, oltre ad essere eticamente discutibile nei confronti di quei soldati che si mandano a combattere e a morire in condizioni di inferiorità  rispetto al  nemico, se  elevato a sistema è destinato inesorabilmente  a fallire.

In Africa Orientale Italiana, nonostante la difesa eroica, le truppe italiane sono state sopraffatte in pochi mesi, in Grecia si è riusciti ad avere la meglio sull’esercito ellenico solo grazie all’intervento tedesco, in Africa Settentrionale ed in Russia l’eroismo dei nostri soldati non è bastato né avrebbe mai potuto bastare stanti le carenze logistiche e l’inferiorità tecnologica dei nostri sistemi d’arma.

Mi ha sempre fatto arrabbiare la frase “Mancò la fortuna non il valore” che si può leggere sul cippo che ricorda l’eroico sacrificio del 7° Reggimento Bersaglieri nel deserto egiziano a 111 km. da Alessandria.

Il cippo che ricorda l’eroico sacrificio del 7° Reggimento Bersaglieri nel deserto egiziano

Certo, ci fu il valore individuale dei nostri soldati  e ce ne fu tanto! Però, non mancò solo la fortuna, non si trattava di una partita ai dadi!

Mancarono armamenti adeguati, mezzi idonei a operare nello specifico teatro operativo (che fosse la Russia o l’Africa Settentrionale), un supporto aereo comparabile con quello dell’avversario, una logistica idonea  a supportare lo sforzo delle truppe combattenti sempre più lontane e, soprattutto, alte gerarchie militari che  non accantonassero la propria professionalità  e non venissero meno agli obblighi morali che avevano nei confronti dei propri soldati per  ingraziarsi un potere politico che stava chiedendo alle Forze Armate uno sforzo superiore alle sue possibilità.

L’allora Capitano Giacomo Lombardo (anziano ufficiale d’Accademia che all’inizio della campagna di Grecia chiese di lasciare l’incarico d’ufficio presso un Comando d’Armata per rientrare al proprio Reggimento in partenza per il fronte) dell’imbarco della propria Divisione per l’Albania a gennaio 1941 scriveva [3]:

Era una pietà  vedere l’imbarco verso la disfatta  e la morte di unità improvvisate e già sul punto di sfaldarsi! Il tema della propaganda era ormai ‘morire’. Affrontare il nemico con inferiorità di forze e di mezzi e ‘saper morire’, ‘insegnargli a morire’ “.

Peccato, che mi pare che il primo obiettivo della tattica militare sia invece  proprio il riuscire a realizzare condizioni  di superiorità numerica e qualitativa dove e quando si intenda affrontare il nemico.

Ma a parte l’impreparazione dello strumento militare italiano ad affrontare  il conflitto (in merito alla quale suggerisco di leggere quanto scritto  dall’allora Maggiore Luigi Marchesi [4] , futuro capo di SMD e all’epoca  uno degli ufficiali che lavorava a stretto contatto con il Generale Vittorio Ambrosio)  vi fu anche la colpevole inerzia dei vertici politici e militari nel periodo  intercorrente dal 25 luglio al l’ 8 settembre (inerzia di cui ci fornisce una chiara testimonianza un altro dei protagonisti della difesa di Roma, il Tenente Colonnello Leandro Giaccone [5]). Inerzia che invece non riscontriamo assolutamente da parte tedesca.

I fatti del 9 e 10 settembre a Porta San Paolo videro impegnati militari e civili contro le truppe naziste. Da lì inizia la lotta di liberazione o ci sono altre tappe?

Penso sicuramente che si possa dire che l’evento simbolo dell’avvio della resistenza sia avvenuto a Roma, dove nei giorni 9 e 10 settembre ’43.

In tale occasione,  d’iniziativa e senza ordini, ufficiali e soldati di tutte le armi dell’Esercito Italiano hanno ingaggiato contro i tedeschi una lotta impari, che sapevano essere senza speranza, e per questo ancor più eroica.

A loro si sono uniti uomini e donne di tutti i ceti sociali e di tutti i credi politici, a dimostrazione che in quella situazione di caos e di generale perdita di punti di riferimento, le Forze Armate, nonostante la crisi della politica e nonostante tre anni di guerra non fortunata, erano ancora ritenute, da buona parte dei cittadini italiani, le uniche rappresentanti della Nazione e dell’unità nazionale.

Non si trattò certamente di un evento bellico memorabile dal punto di vista militare, ma è stato un magnifico esempio di coesione del Popolo con il “suo” Esercito.

Non si trattò solo di Roma. Eventi simili, anche se di minor portata, sono avvenuti in tutto il Paese così come nei territori esteri ove i nostri soldati erano dislocati.

Non starò a citare tutti i numerosi esempi, ma sappiamo che i reparti abbandonati da una condotta miope delle operazioni  in isole sperdute dell’Egeo o nei Balcani, hanno spesso resistito o hanno tentato di resistere contro i tedeschi, nonostante fossero in soggezione di forze. Conosciamo i fatti di Cefalonia, grazie soprattutto all’attenzione che ha rivolto all’evento il presidente Ciampi, ma non c’è stata solo Cefalonia. Fatti analoghi si verificarono in altre isole greche (Corfù, Rodi, Lero), così come in Corsica, e nei Balcani.

Un momento della battaglia di Monte lungo (8 dicembre 1943)

La sensibilità al riguardo del Presidente Carlo Azeglio Ciampi è anche dovuta alla sua storia personale: era anche lui un giovane Tenente dell’Esercito quel tragico 8 settembre ’43.

Se facessimo, ad oggi, un bilancio tra i combattenti civili e quelli militari impegnati nella lotta di liberazione, secondo lei la bilancia dove penderebbe?

Non farei un discorso numerico ed eviterei una contrapposizione  “militari” – “civili”.

Molti “militari” erano cittadini che in quel momento vestivano la divisa e molti “civili” erano cittadini che l’avevano vestita in precedenza.

Come noto, il contributo dei “militari” alla guerra di liberazione si sviluppò secondo almeno quattro differenti modalità, tutte in realtà poco conosciute:

  • Nei territori del centro-nord Italia che dal 9 settembre furono di fatto occupati dai tedeschi, dove i militari furono tra i primi a costituire l’ossatura di quello che sarebbe poi divenuto il movimento partigiano. Ciò perché alcuni reparti si sono dati alla macchia già subito dopo l’8 settembre, mantenendo spesso, almeno all’inizio, la propria organizzazione e con quadri che avevano già molta esperienza bellica. Ce lo testimonia non un militare, ma un dirigente comunista, Luigi Longo, vice comandante del Corpo Volontari della Libertà e futuro segretario del PCI, che in proposito scrisse: “Vi erano soldati che fuggivano verso la montagna guidati dai loro ufficiali. Fuggivano per un’ansia di ribellione, ma con senso di disciplina e organizzazione. E fuggivano recandosi appresso la propria arma”. Sottolineo ilguidati dai propri ufficiali”  e con senso di disciplina e organizzazione”.
  • Al di fuori del territorio nazionale, dove le nostre unità, frammischiate a quelle tedesche, ma sempre in situazione di inferiorità operativa se non numerica, offrirono in molti casi una resistenza eroica, cui ho già fatto cenno.
  • Nei campi di concentramento, dove all’indomani dell’8 settembre furono internati circa 720 mila militari italiani, disarmati dai tedeschi in Italia o all’estero. La maggioranza di loro rifiutò la proposta di tornare in libertà aderendo alla RSI e affrontò stenti, fatiche e freddo che portarono alla morte ben 40 mila di loro. Si trattò di un esempio di saldezza morale e di resistenza passiva, che indebolì notevolmente la credibilità della RSI agli occhi dei tedeschi.
  • Operando come Forze Armate regolari al fianco degli anglo-americani per liberare, armi in pugno, la Penisola. Ricordiamoci che solo per Churchill lo sforzo in Italia era prioritario, mentre tale posizione non era condivisa né da Stalin né da Roosevelt. Le Armate regolari del Regno d’Italia arrivarono a contare più di mezzo milione di uomini (400.000 dell’Esercito, 80.000 della Marina, 35.000 dell’Aeronautica). Non solo i Gruppi di Combattimento (in pratica Divisioni, che gli Alleati non consentirono di chiamare così solo per motivi politici) ma anche reparti combattenti della Marina, dell’Aeronautica e le Divisioni Ausiliarie che furono essenziali per consentire alle armate alleate di risalire la Penisola. L’importanza non solo militare ma anche politica di tale impegno fu evidenziato nel mirabile intervento di Alcide De Gasperi alla Conferenza di Parigi (10 agosto ’46).

Quindi  sicuramente  vi erano più “militari” che “civili” che combattevano contro i tedeschi?

Ma il puro conteggio aritmetico mi pare esercizio futile. Credo che ci si dovrebbe interrogare sul  perché le Forze Armate  non siano state in grado di:

  • prepararsi per tempo alla condotta di una guerriglia nei territori italiani occupati ( che fossero occupati  da parte degli anglo americani o dei tedeschi), ipotesi che dall’inizio del 1943 non era peregrina;
  • assumere, come sarebbe stato il loro compito istituzionale, la guida del movimento resistenziale, cui comunque fornivano il maggior contributo di uomini sul terreno;
  • far valere dopo la guerra il contributo essenziale da loro fornito alla liberazione del Paese, lasciando che altri se ne attribuissero nell’immaginario popolare interamente i meriti.

 

Report Difesa intende realizzare un percorso storico-culturale della Memoria a Roma che parta dal 25 luglio 1943 e termini il 4 giugno 1944. Che consigli potrebbe darci?

Lo riterrei molto importante. Dell’8 settembre di 77 anni fa gli italiani sanno purtroppo ben poco.

L’immaginario popolare è quello di una nazione sconfitta che cadeva a pezzi,  con una classe dirigente in fuga e con un Esercito allo sbando che si è dileguato di fronte alla marzialità teutonica.

In pratica hanno nella loro mente il quadro triste e disfattista tramandatoci da molti film, da “Tutti a Casa” con Alberto Sordi  a “Mediterraneo” con Diego Abatantuono.

Si è trattato certamente di un momento tragico della nostra Storia. Ma non è stato solo questo.

Limitandoci alla sola città di Roma, vi sono stati i combattimenti di Porta San Paolo, di cui abbiamo già parlato, le deportazioni degli italiani di religione ebraica, la nascita della Resistenza romana, di cui voglio ricordare il magnifico contributo fornito dal Fronte Militare Clandestino che faceva capo al Colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, che era in stretto collegamento con le autorità militari italiane di Brindisi.

Ricordiamo che dei 335 trucidati alle Fosse Ardeatine, ben 69 erano uomini con le stellette.

Certamente è un periodo storico che occorre far conoscere ai giovani. E occorre farlo conoscere presentando fatti e non utilizzandolo per propaganda.

La grotta luogo dell’eccidio alle Fosse Ardeatine

NOTE

[1] Per il Regno d’Italia ciò valse sicuramente sino al trasferimento della capitale a Salerno e poi alla storica “svolta di Salerno”. Per la RSI la situazione di assoluta subalternità al Reich sarà evidente sino alla fine.

[2] Ricordiamo l’eccidio di Porzus perpetrato da partigiani italiani gappisti comunisti ai danni dei partigiani della Brigata “Osoppo” (comprendente militari, cattolici e socialisti) e la dura contrapposizione in Friuli Venezia Giulia tra le formazioni partigiane che combattevano per difendere l’italianità della regione e quelle che ne volevano l’annessione alla Jugoslavia di Tito.

[3] Giacomo Lombardo: “Il nemico è a Roma” – Cino del Duca editore, ed 1963, pag.118

[4] Luigi Marchesi :“1939-45. Dall’impreparazione alla resa incondizionata.  Memorie di un ufficiale del Comando Supremo”- Ed. Mursia 1992.

[5] Leandro Giaccone: “Ho firmato la resa di Roma”

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