II Guerra Mondiale, oggi a Roma i funerali di Santo Pelliccia, eroe di Al Alamein

Roma. Si sono tenuti, questa mattina, a Roma i funerali di Santo Pelliccia, reduce della Seconda Guerra Mondiale, scomparso, nei giorni scorsi, all’età di 95 anni.

Santo Pelliccia con il comandate della Brigata Folgore, Rodolfo Sganga

Pelliccia è stato un paracadutista della Brigata Folgore nella battaglia di El Alamein e ha speso la sua vita nel tramandare ai giovani esperienze e ricordi.

In un’intervista pubblicata nel 2013 su Rivista Militare, a firma di Francesca Cannataro, Pelliccia raccontò quei momenti dello scontro nel deserto egiziano.

“Quando arrivammo – ricordò Pelliccia – eravamo pieni di vivacità e forza. Incoscienti, motivati e sprezzanti della morte. Si combatteva con dignità e coraggio. Noi lavoravamo in squadre unite tra loro. Sapevamo cosa c’era da fare e soprattutto eravamo fermamente convinti che nessuno dei nostri compagni avrebbe mai ceduto o indietreggiato, piuttosto si sarebbe fatto uccidere. Di lì non passò nessuno”.

Il Sacrario militare italiano di El Alamein (COPYRIGHT Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti)

“Tra di noi – aggiunse – ci aiutavamo in qualsiasi modo. Parlando di buca in buca ci rassicuravamo delle condizioni gli uni degli altri. Non potevamo uscire dalle buche e se lo facevamo, ogni tanto di notte per espletare i nostri bisogni fisiologici, dovevamo avvisarci l’un l’altro perché non esisteva «l’alto là». Si sparava e basta, non appena qualcosa si muoveva. Loro penetravano nelle nostre linee e postazioni. E a quel punto era solo una questione di sangue freddo. Si aspettava il segnale, restando nascosti. Si sbucava fuori e si combatteva corpo a corpo. Facendo così scatenavamo tra i nemici panico e caos costringendoli a fuggire, quelli che restavano venivano circondati ed eliminati. Con le bombe e con le mine magnetiche si cercava anche di distruggere i cingoli dei carri armati. Una volta fermati quei «giganti d’acciaio», si demoliva e bruciava il mezzo in modo da renderlo inservibile. Spesso a bordo dei carri recuperavamo qualcosa, soprattutto acqua, che ci poteva servire per la sopravvivenza. Tra i tanti ricordi l’avanzata dei soldati inglesi contro di noi a suon di cornamusa. Pensavano di spaventarci, invece tra di noi si allentò la tensione perché quel suono ci permise piuttosto di individuare la loro posizione. Li prendemmo in giro tutta la notte”.

Mancò la fortuna ma non il valore

E proseguendo nel raccontò evidenziò altri particolari dei combattimenti: “I nostri ufficiali ci comunicarono il sopraggiunto ordine di ripiegamento. La nostra fu una reazione immediata. Non volevamo lasciare le nostre postazioni. Non conoscevamo la parola arrendersi, volevamo continuare a difendere la nostra linea. Ma gli ordini erano ordini. Così la notte del 3 novembre si ripiegò”.

“Una squadra – proseguì – fu lasciata per proteggere il ritiro. Furono così valorosi che gli inglesi pensarono che eravamo ancora tutti lì. E per noi iniziò l’epopea nel deserto. Marciammo 3 giorni e 3 notti, con a disposizione una galletta e mezza per mangiare e appena un litro di acqua al giorno, incolonnati e in perfetto ordine. Gli inglesi ci controllavano da lontano, non osarono avvicinarsi. Eravamo a piedi, ormai senz’acqua e senza viveri, ma sempre con le armi addosso, quando gli inglesi ci vennero sotto con le autoblindo e ci catturarono. Ma prima combattemmo ancora”.

“Io ero in squadra con pochi altri – proseguì nel suo racconto a Rivista Militare – circa 30 persone, in 5 persero la vita. Tra di loro il comandante del plotone Tenente Gaetano Lenci. Una scheggia mi ferì al piede tranciandomi il dito mignolo, ricordo solo che fui preso e portato via e vidi quei corpi esanimi a terra. Il mio cruccio fu quello di non ravvisare dove le salme furono portate, avrei potuto darne notizie ai familiari. Di quei giorni ricordo chiaramente ancora la scena di uno dei cinque che persero la vita che quasi avvertendo il suo destino, si avvicinò a me, che ero il più giovane, e mi costrinse a prendere la sua razione giornaliera di cibo e acqua nonostante le mie reticenze. Se lo sentiva che doveva morire”.

Poi la prigionia. “Fummo portati – ricreò Pelliccia – al campo 309 a Kassassin, lì mi curarono nell’ospedale da campo. Nel campo continuai fiero a fare il paracadutista. Indomito e sprezzante del pericolo. Si dormiva in tenda, dodici persone, e si faceva la fame. Per cibo, sempre lenticchie. Bisognava non farsi mettere sotto dagli altri prigionieri, essere duri e tirare fuori i denti per sopravvivere. Per rimediare qualche cosa da mangiare e da scambiare anche per il mio gruppo, giovane e incosciente come ero, avevo imparato a sfuggire al controllo delle sentinelle infiltrandomi quando usciva una colonna di prigionieri per il lavoro e dalla colonna in uscita, nel tempo che restava prima dell’arrivo della colonna contenente il mio gruppo, cercavo di razzolare cose da mangiare tramite gli arabi e gli inglesi stessi”.

Prigionieri italiani dopo la battaglia

“Un giorno – concluse il suo racconto di quei momenti – riuscii anche a entrare nel «campo forno», mangiai tante di quelle pagnotte ripiene di marmellata da riempirmi la pancia. E anche un Natale riuscii ad arrivare lì e a fare un pranzo da signore: fettuccine, carne, pagnotte. Fu un Natale bellissimo”.

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