Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. L’affermazione secondo cui l’antisemitismo costituirebbe oggi un’“arma riaffilata” da parte della sinistra e del mondo arabo legato a Vladimir Putin, mentre la xenofobia sarebbe una nuova forma di autodifesa delle democrazie contro “infiltrazioni” con finalità sovversive, merita una riflessione articolata e rigorosa, evitando generalizzazioni pericolose e ideologiche.

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il conflitto israelo-palestinese ha generato un’escalation di manifestazioni antisemite, specialmente in ambienti accademici e nei movimenti della sinistra radicale occidentale.

La Harvard University, ad esempio, è stata teatro di forti tensioni e bias anti-israeliani che hanno portato alla creazione di una Task Force istituzionale per contrastare l’antisemitismo e il pregiudizio anti-israeliano.
Questo episodio, lungi dall’essere isolato, ha avuto un effetto emulativo: in diversI Atenei europei si stanno diffondendo movimenti analoghi, alcuni ancora in fase embrionale, altri già riusciti a imporre una lettura ideologica della questione israelo-palestinese, spesso fondata su una delegittimazione sistematica dello Stato di Israele e, più in generale, sull’adozione di linguaggi e simboli ambigui o apertamente ostili alla presenza ebraica.
In chiave geopolitica, questo riemergere dell’antisemitismo in alcuni settori della sinistra è spesso legato a un’antica matrice ideologica che tende a identificare Israele come un’estensione dell’“imperialismo occidentale”.
Questa posizione è oggi strumentalizzata da attori internazionali come l’Iran e la Russia, i quali, in una logica di guerra ibrida, sostengono politicamente e mediaticamente quei movimenti che si oppongono all’ordine liberale democratico.
Mosca, Pechino e Teheran, in particolare, conducono da tempo una guerra asimmetrica contro l’Occidente, facendo leva su fratture interne, tra cui antisemitismo e identitarismo estremo. La disinformazione, la polarizzazione e l’uso mirato di retoriche radicali sono diventati strumenti sofisticati di destabilizzazione.
Parallelamente, il crescente utilizzo della xenofobia da parte delle destre populiste occidentali si configura come una forma di “reazione difensiva” alle pressioni migratorie e ai cambiamenti socio-demografici.
I grandi flussi migratori generati da conflitti, crisi ambientali e disgregazione statale in diverse aree del mondo alimentano il malcontento popolare nelle democrazie, aprendo spazio a movimenti politici che invocano “difese identitarie” e si scagliano contro l’“infiltrazione” straniera.
Anche in questo caso, si tratta di una risposta distorta a problemi reali, che viene però cavalcata e amplificata da chi punta a sovvertire le regole dello stato di diritto.

Entrambi i fenomeni – antisemitismo e xenofobia – sono sintomi di una più profonda crisi dell’ordine democratico-liberale.
Le autocrazie li alimentano e li sfruttano come strumenti di delegittimazione dell’Occidente, in un contesto in cui la verità storica viene distorta e le identità collettive manipolate.
L’uso politico di queste ideologie rappresenta una minaccia concreta all’integrità delle società democratiche, esponendole al rischio di polarizzazione interna e di implosione morale.
Il rischio è duplice: l’antisemitismo mascherato da antisionismo ideologico e la xenofobia rivendicata come autodifesa culturale.
Non è vero che esista un piano organico della sinistra e del mondo arabo per “conquistare” le democrazie dall’interno
Tuttavia, è vero che esiste una convergenza tattica fra autocrazie revisioniste e movimenti ideologici occidentali -sia di estrema destra che di estrema sinistra – che mettono in crisi l’universalismo democratico.
Riconoscere, isolare e contrastare tali convergenze è essenziale per la difesa dell’ordine liberale.
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