Di Giuseppe Gagliano*
ISLAMABAD. Il Pakistan , quest0’anno, è tornato al centro della diplomazia di crisi, non per il suo ruolo tradizionale di equilibrio tra potenze regionali, ma per la figura inattesa del Field Marshal Asim Munir, capo dell’Esercito e ormai consigliere informale della Casa Bianca sulle questioni iraniane.
Una circostanza sorprendente, resa possibile da un intreccio di eventi: il conflitto lampo con l’India, la nuova guerra a distanza tra Israele e Iran, le tensioni nel Golfo e l’inclinazione dell’amministrazione Trump a servirsi di figure non convenzionali per gestire dossier delicatissimi.

Munir diventa così un interprete della metamorfosi pakistana: da Paese percepito come instabile e dipendente a interlocutore indispensabile per gli Stati Uniti.
La sua ascesa prende forma a maggio, quando una fiammata di violenze lungo la Linea di controllo con l’India, fatta di scambi d’artiglieria e manovre rischiose, rischia di degenerare. Munir gestisce la crisi con freddezza, evitando lo scenario peggiore.
Per questo ottiene il grado di Field Marshal, solo il secondo nella storia militare pakistana.
E soprattutto cattura l’attenzione di Donald Trump, che lo invita a giugno alla Casa Bianca per un incontro privato – senza delegazioni, senza protocolli rigidi, con un tono che ricorda gli uomini di fiducia scelti dall’ex presidente per “saltare” le burocrazie di Washington.

Trump, che non perde occasione per teatralizzare il potere, lo definisce “il mio maresciallo preferito”, e attribuisce proprio a quello scambio l’evitata guerra con l’India, spingendosi a suggerire l’idea di un Nobel.
Dietro il folklore, però, c’è una strategia: gli Stati Uniti cercano un contrappeso all’India in un momento in cui i rapporti con Nuova Delhi si incrinano, tra dispute commerciali e avvicinamento indiano alla Cina e alla Russia.
Il Pakistan, penalizzato da tariffe americane più basse rispetto all’India e ansioso di recuperare centralità internazionale, diventa improvvisamente prezioso. In cambio della rinnovata considerazione, Washington offre lo spazio politico per designare il Balochistan Liberation Army come organizzazione terroristica, gesto che Islamabad attendeva da anni per rafforzare il controllo su una provincia esplosiva.
Il nodo vero, però, è l’Iran. Con il crescere della tensione fra Tel Aviv e Teheran, gli Stati Uniti chiedono al Pakistan di contribuire alla gestione della crisi: un compito che nessun altro alleato musulmano accetterebbe senza doppiezze.
Durante l’incontro di giugno, Munir esorta Trump a evitare un intervento diretto in aiuto di Israele e a cercare un cessate il fuoco che salvi la faccia a tutti. È un tentativo di mediazione appoggiato da Arabia Saudita, Emirati e Qatar, con cui il Pakistan ha appena firmato un patto di difesa reciproca.
La mossa serve a garantire la stabilità del Golfo, ma anche a difendere gli interessi energetici pakistani, legati a progetti infrastrutturali con l’Iran — gasdotti, raffinerie e commerci di frontiera.
Poi arriva la svolta.
Pochi giorni dopo quell’incontro, gli Stati Uniti colpiscono i siti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan.
A Teheran e in parte della stampa regionale si insinua che Munir sia stato ingannato da Trump, o peggio che abbia fornito informazioni sensibili. In Pakistan, invece, cresce la sensazione che la Casa Bianca abbia usato il Paese come semplice pedina nella ridefinizione della strategia verso l’Iran. È l’ennesimo esempio di come Washington, quando decide di parlare con Islamabad, lo faccia sempre con un obiettivo tattico, mai con una visione di lungo periodo.
Il coinvolgimento del Pakistan non riguarda solo la sicurezza. Gli Stati Uniti guardano con interesse al potenziale minerario pakistano, stimato in oltre sei trilioni di dollari: rame, terre rare, litio, metalli strategici che consentirebbero a Washington di ridurre la dipendenza da Cina e Russia. In parallelo cresce la cooperazione antiterrorismo, soprattutto lungo il corridoio afghano.
Munir, che ha costruito gran parte della sua carriera nei servizi di intelligence, è visto da Washington come un interlocutore efficiente, in grado di muoversi in un’area dove pochi alleati americani sono affidabili.
Resta il problema più delicato: la posizione del Pakistan tra Stati Uniti, Iran e Cina. Islamabad non può permettersi di perdere il sostegno economico cinese, né di bruciare le relazioni commerciali con l’Iran.
Allo stesso tempo, non può ignorare le pressioni americane né i vantaggi di un riavvicinamento tattico a Washington. È il classico funambolismo pakistano: tenere insieme tutto, cercando di non far cadere niente. Per ora Munir ci riesce, ma il prezzo è un crescente ruolo politico dei militari, che rischia di destabilizzare ancora di più il Paese, soprattutto in regioni sensibili come il Balochistan.
Il nuovo asse Trump–Munir non è dunque un’alleanza strutturale: è un patto temporaneo, dettato dalle necessità americane nella crisi iraniana e dalle ambizioni pakistane di tornare al centro del gioco regionale.
Ma, come sempre nel rapporto fra Washington e Islamabad, l’equilibrio è fragile.
In Medio Oriente e nel subcontinente, basta poco per trasformare un intesa tattica in un problema strategico.
Munir ne è consapevole. Trump, forse, un po’ meno.
*Presidente Centro studi strategici (Cestudec)
