Di Giuseppe Gagliano
GIACARTA. Nel cuore dell’Arcipelago indonesiano si sta giocando una partita che supera le semplici logiche di alleanze o investimenti.
Jakarta, sospesa tra promesse di crescita economica e spinte centrifughe esterne, rischia di diventare pedina – o peggio bersaglio – nel braccio di ferro strategico tra Russia, Cina e Stati Uniti nel quadrante Asia-Pacifico.

Secondo Janes, Mosca avrebbe richiesto formalmente di poter utilizzare la Base militare di Manuhua, situata sull’Isola di Biak, a un soffio dalla base statunitense di Darwin, Australia.
La smentita fulminea di Jakarta, che ha negato ogni trattativa, sembra più una mossa diplomatica dettata dall’urgenza di placare le ire di Washington e Canberra che una reale assenza di contatti. Il fatto che l’ambasciatore russo Tolchenov non abbia negato, e anzi abbia parlato di “cooperazione militare integrata”, alimenta il sospetto che qualcosa stia effettivamente bollendo in pentola.
La Base di Biak rappresenterebbe per la Russia un trampolino di lancio in grado di moltiplicare le sue capacità ISR (Intelligence, Surveillance, Reconnaissance) nell’emisferoSsud, disturbando le esercitazioni australiane e osservando da vicino i movimenti statunitensi a Guam.

Non è un dettaglio di poco conto in un momento in cui Washington preme sull’acceleratore del riarmo Indo-Pacifico: missili a raggio intermedio in Australia, sottomarini nucleari nell’ambito del Patto Aukus, partenariati rafforzati con Filippine e Giappone.
In mezzo a queste onde geopolitiche, l’Indonesia cerca di restare a galla.
La dottrina “libera e attiva” dichiarata da Jakarta, in apparenza equidistante, è in realtà una faticosa ricerca di spazi di manovra.
Il Presidente Prabowo Subianto, ex generale e nazionalista pragmatico, ha l’ambizione di portare la crescita economica al 8% entro il 2029.

Ma con una crescita reale ferma intorno al 5% e previsioni in calo per il primo trimestre 2025, il margine d’azione si restringe.
È in questo contesto che si inseriscono i tentativi di attrarre capitali stranieri, inclusi quelli russi.
L’incontro tra Prabowo e Sergei Shoigu, lo scorso febbraio, non è stato solo un omaggio diplomatico: dietro le strette di mano ci sono dossier aperti su cooperazione militare e investimenti nel Fondo sovrano Danantara.

La Russia, ormai emarginata dai circuiti occidentali, guarda all’Indonesia come ponte verso il Sud Globale e laboratorio di influenza non dichiarata.
Ma proprio questa ambiguità rischia di trasformare l’Indonesia in un campo minato geopolitico.
Accogliere Mosca o anche solo lasciar intendere una prossimità troppo spinta significa urtare non solo gli Stati Uniti ma anche i partner ASEAN più vicini all’Occidente.
Al contrario, allinearsi troppo con Washington può provocare ritorsioni economiche da parte di Pechino o raffreddare i legami con Mosca, partner non secondario in ambito difensivo e energetico.
La realtà è che nel “grande gioco asiatico” descritto con una certa leggerezza da alcune cronache, l’Indonesia rischia di essere meno giocatore e più scacchiera.
La sfida di Prabowo, in fondo, è quella di ogni potenza intermedia nel mondo multipolare: sfruttare la competizione tra i grandi senza rimanere schiacciati sotto i loro piedi.
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