Iran, gli scenari internazionali dal voto per il Parlamento. Più stretti rapporti con Russia e Cina contro gli Stati Uniti?

Di Pierpaolo Piras

Tehran. Ampia è stata la vittoria dei conservatori estremisti alle recenti elezioni politiche al Parlamento iraniano (Majlis) gravate dalla più bassa partecipazione dei votanti (42,57%) nella storia della Repubblica Islamica.

La “Coalizione all’Unità”, derivante dalla fusione di due liste di conservatori, guidata dall’ex sindaco radicale di Tehran, Mohamad Baqer Qalibaf, ha prevalso nettamente conquistando, per elezione diretta, 256 seggi sul totale di 290.

L’ex sindaco radicale di Tehran, Mohamad Baqer Qalibaf

I conservatori si sono aggiudicati anche i 30 seggi dell’area della capitale, finora in mano ai riformisti.

Qalibaf non nasconde le sue mire verso le prossime consultazioni per la carica presidenziale.

La scarsa partecipazione al voto è stato un cocente smacco per il regime teocratico dei due leader supremi, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini e l’odierno Ayatollah Ali Khamenei.

Ali Khamenei

L’affluenza è stata inferiore di circa il 20%, specie nei giovani, rispetto all’analogo confronto politico del 2016 (61%). Ancora più basso nelle grandi città.

Viene infatti a mancare uno dei principali sostegni propagandistici: l’alta partecipazione al voto, intesa a dimostrare la mancanza di iniquità nel sistema di voto e, non in ultimo, l’elevata approvazione del popolo verso il regime islamico iraniano.

La consultazione elettorale è arrivata dopo mesi di proteste antigovernative alimentate da un’economia in recessione seguita da una brutale repressione del dissenso.

Ha sicuramente inciso anche la esclusione dal voto di migliaia di candidati colpevoli solo di appartenere alle forze più moderate e riformiste, il diffuso malcontento per il grave peggioramento della economia e, ultimamente, il goffo abbattimento di aereo civile ucraino.

In questa occasione, Il Consiglio dei Guardiani (composto da sei religiosi nominati direttamente da Khamenei, Guida Suprema della Nazione e massima carica religiosa sciita in Iran e da sei giuristi) ha escluso dalle candidature più del 50% dei 14 mila che hanno presentato la domanda di potersi candidare.

La maggioranza (81) di essi proveniva dalle forze moderate e riformiste.

Poi, è ancora viva la rabbia per la dura e sanguinosa repressione delle proteste di piazza di novembre scorso.

Ali Khamenei fa risalire il forte calo di popolarità del proprio regime alla propaganda americana, agente anche sulla paura di muoversi dal proprio domicilio per il pericolo di contrarre l’infezione da coronavirus.

Oggi siamo ad un rovesciamento di posizioni e poteri. Nel 2016 gli elettori avevano attribuito un’inaspettata maggioranza ai riformatori, contando anche sui riflessi di un accordo storico tra Iran e le maggiori potenze mondiali, che concedeva al paese notevole riduzioni delle sanzioni economiche in cambio della conciliazione sulla propria politica sul programma nucleare.

Molte cose sono cambiate nel 2018 dopo la dipartita degli USA dall’accordo ed il ripristino delle sanzioni economiche, anche sui prodotti petroliferi e finanziari.

La forte riduzione delle vendite di petrolio ha gravemente impoverito le condizioni economiche dell’Iran, determinando un impoverimento del bilancio statale a favore sia per il sistema scolastico che per i trasporti e i servizi sanitari.

Il maggiore malcontento proviene dai giovani che, per quanto istruiti al massimo livello universitario, non riescono a trovare un lavoro adeguato.

In tutta la popolazione l’insoddisfazione è da primato non solo per l’inadeguatezza del regime teocratico religioso a governare una società moderna (ad esempio la chiusura dei collegamenti Internet) ma anche per la scarsa crescita democratica che rallenta il secondario progresso economico e civile.

Non è un caso che tante recriminazioni siano dovute all’aumento delle discriminazioni e disuguaglianze tra ricchi e poveri.

Questa mancanza d’ascolto verso le istanze che vengono dal basso determina proteste di piazza, come quelle del novembre scorso, allorchè vennero disposte le misure governative di aumento sia del prezzo del carburante che del suo razionamento.

In definitiva, dopo queste elezioni, l’Iran cambierà ben poco: l’accordo nucleare già non esiste più ed assenti sono i segnali di una sua eventuale ripresa. In mancanza di un accordo con gli Stati Uniti gli investimenti diminuiranno ulteriormente, alimentando le rivolte interne.

In ultimo, continuerà l’isolamento internazionale che oggi penalizza sensibilmente i rapporti internazionali del Paese.

L’unica conseguenza probabile, invece, potrebbe essere un incremento dell’attività iraniana nel teatro conflittuale in Medio Oriente, specie in Iraq dove i propri alleati come gli Hezbollah sono a diretto contatto con le forze armate americane.

L’Iran potrebbe anche stringere i rapporti di cooperazione economica s strategica con gli avversari storici degli USA come la Russia e la Cina.

La tensione politica verso l’Iran sarà condizionata dall’esito delle vicine elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

Se dovesse vincere Donald Trump, Presidente attuale, continuerà la massima pressione politica su Tehran. Se, al contrario seguirà un presidente democratico con una politica di maggiori concessioni, sarà lo stesso governo iraniano a propagandare questo gesto come una clamorosa e squillante vittoria propagandistica.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Autore