Iraq: 20 anni fa iniziò l’invasione americana. Il Paese ora vuole mettere da parte una lunga storia di guerre e di dittature. Il ruolo del nuovo Presidente della Repubblica, il curdo Abdul Latif Rashid

Di Alessia Rollo

BAGHDAD. (nostro servizio particolare). Sono passati esattamente 20 anni dall’inizio dell’invasione americana dell’Iraq.

Erano le 5.34 del mattino quando con l’Operazione “Iraqi Freedom” iniziarono i primi bombardamenti aerei.

Un AAV 7 dei Marines in Iraq

Quella che oggi viene ricordata come Seconda Guerra del Golfo, fu allora fortemente voluta dal Governo americano, ma per capirne le ragioni è bene fare un passo indietro.

L’INVASIONE DEL KUWAIT

A seguito dell’invasione del Kuwait (2-4 agosto 1990) da parte dell’Iraq, l’ONU chiese di aprire tutti i siti alle ispezioni per accertare che il Paese non fosse in possesso di armi di distruzioni di massa.

Un momento dei combattimenti in occasione dell’invasione del Kuwait

Ad aggravare la situazione ci furono anche le sanzioni delle Nazioni Unite che impedivano di vendere petrolio e vietavano l’importazione di diverse sostanze chimiche e biologiche che potessero essere utilizzate nella produzione di armi non convenzionali.

Ma, nonostante ciò, a Washington cresceva sempre più un senso di frustrazione che portò ad un atteggiamento sempre più duro verso Baghdad e soprattutto verso Saddam Husayn, il dittatore conosciuto in Occidente come il nuovo “Hitler” per le sue atroci persecuzioni nei confronti di sciiti e curdi e famoso per non essere particolarmente amichevole con chi si opponeva al suo regime Ba’athista.

Un immagine del dittatore iracheno Saddam Hussein

Per loro, dunque, il “Problema dell’Iraq” era in realtà il “Problema di Saddam Husayn” e l’instaurazione di un nuovo regime era per questi l’unico modo per reintegrare l’Iraq nella comunità mondiale.

Il tutto si intensificò dopo i drammatici attentati dell’11 settembre 2001, quando la violenza e le vittime degli attacchi alle Torri Gemelle del World Trade Center, riaccesero la paura che gruppi terroristici potessero usare armi biologiche, chimiche e perfino nucleari.

L’attacco alle Torri Gemelle di New York

In una simile atmosfera, l’attenzione fu riportata sulle accuse all’Iraq per lo sviluppo di armi non convenzionali ed alcuni erano pronti a vederne la mano in quelle vicende, malgrado non vi fossero evidenze in tal senso.

INVASIONE DELL’IRAQ

La campagna che ha portato all’invasione dell’Iraq è culminata nella presentazione del Segretario di Stato Colin Powell al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 5 febbraio 2003.

Colin Powel con la famosa fialetta che avrebbe dovuto contenere antrace

Si trattò di una performance estremamente importante per la costruzione della narrativa del complotto, dal momento che Powell stesso era sempre stato visto come una voce più moderata nel dibattito sull’Iraq.

Durante il suo discorso – che fu interpretato come la “prova regina” di una minaccia irachena alla sicurezza degli Usa – Powell visualizzò la disposizione cospirativa mostrando immagini satellitari, riproducendo telefonate intercettate e tenendo in mano “una fiala che poteva contenere antrace”, secondo le sue parole.

Ma quelle “prove” si sarebbero poi rivelate essere orchestrate e senza fondamento.

Iniziò così l’invasione tanto voluta dall’Amministrazione Bush nonostante il mancato sostegno dell’ONU.

Il 1° maggio fu dichiarata la fine di tutte le operazioni di combattimento, ma la popolazione irachena, paga ancora oggi le conseguenze di una guerra che ha stravolto il Paese, con un bilancio di oltre un milione di vittime.

Ma soprattutto paga per una guerra che ha portato ad altri conflitti, a partire dalle tensioni settarie e alle ostilità tra le diverse comunità etniche e religiose che culmineranno con la nascita dello Stato Islamico (IS) nel 2014.

Difatti, immediatamente dopo la guerra, il quadro costituzionale del Paese – che si era stabilito con la Costituzione del 2005 rendendo l’Iraq una Repubblica parlamentare federale – si era rapidamente trasformato in un governo settario, proprio come per anni fece il regime Ba’athista.

Per la pima volta, la maggioranza sciita ricoprì diverse cariche importanti dello Stato e questo portò ad un crescente senso di malcontento tra i sunniti.

Gli Stati Uniti decisero così di intensificare i movimenti militari per limitare gli oramai quotidiani spargimenti di sangue e soprattutto per integrare maggiormente i sunniti nel nuovo regime politico e coinvolgerli nella lotta agli estremisti.

DALL’USCITA DELLE TRUPPE USA ALLO SVILUPPO DEL JIHADISMO

Tutto ciò sembrò funzionare fino al 2011, quando avvenne il ritiro delle truppe statunitensi e con esse svanirono anche le promesse fatte dal Governo di Baghdad nel reintegrare la comunità sunnita nella vita politica irachena.

Migliaia di sunniti vennero arrestati dal Governo di al-Maliki nonostante avessero combattuto contro i jihadisti e aiutato il Paese e questi, amaramente delusi dal comportamento dello Stato, iniziarono a prendere parte a proteste antigovernative.

La stretta di mano tra al Maliki e Bush

Inutile dire che in una tale atmosfera lo Stato Islamico ebbe l’opportunità di ricostruirsi velocemente, reclutando migliaia di combattenti sunniti.

All’inizio del 2014, il gruppo dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) assunse il controllo in gran parte del paese, arrivando poi anche a Mosul e Tikrit e proclamando un Califfato universale, o Stato Islamico (IS), con a capo Abu Bakr al-Baghdadi.

Abu Bakr al-Baghdadi

L’ascesa dell’ISIS mise in ginocchio il Paese tramite una politica di terrore, che altro non fece che dividere ulteriormente l’ormai frantumata società irachena.

Nel 2016, fortunatamente, il Governo iniziò l’offensiva volta a riprendere Mosul (considerata da sempre la capitale del Califfato) e il 9 dicembre 2017 il premier al-‘Abadi dichiarò ufficialmente vinta la guerra a DAESH.

Il capo del Governo iracheno, Haider al-Abadi che dichiarò vinta la guerra contro DAESH

Fu un’Operazione molto complessa che si può certamente definire come la più grossa dopo l’invasione americana del 2003.

E se da una parte liberò l’Iraq dalle violenze e dal terrore, dall’altra lo abbondonò in una fase di profonda incertezza politica sul futuro iracheno.

Incertezza che si è confermata in questi ultimi anni. Infatti, nell’ottobre 2021, dopo l’inizio delle elezioni legislative, il Paese ha vissuto in una situazione di stallo politico causata principalmente dalle divergenze tra i vari gruppi elettorali che sono poi culminate con le dimissioni del blocco Sadrista (dal nome del leader sciita al-Sadr), e con i violenti scontri avvenuti nell’agosto dello scorso anno tra la popolazione di Baghdad.

Muqtada al-Sadr

L’ordine è ritornato solo con la ripresa delle normali attività politiche e con esse anche con l’elezione avvenuta, sempre ad ottobre, del candidato curdo Abdul Latif Rashid come Presidente della Repubblica e alla nomina di al-Sudani come primo ministro.

Il curdo Abdul Latif Rashid Presidente della Repubblica irachena

Inutile affermare, quindi, come dell’ormai vecchio Iraq di Saddam Husayn, il Paese sia stato stravolto completamente.

Ha subito un intervento militare internazionale, ha dovuto affrontare una guerra civile, ha assistito all’insorgere del Califfato islamico, lo ha sconfitto, e al momento si ritrova sotto la presidenza di un iracheno curdo, appartenente all’Unione Patrottica del Kurdistan (PUK).

Un vero e proprio nuovo Iraq rispetto a quello sotto il regime Ba’athista durato per ben 35 anni.

Adesso si respira finalmente un’atmosfera più rilassata rispetto a 20 anni fa.

Non sono più presenti militari ad ogni angolo e la popolazione non vive più nella paura, ma ci sono certamente molte questioni di cui il Governo iracheno deve ancora preoccuparsi: primo fra tutte, il possibile cambiamento dei confini del Paese, vista la recente e preoccupante avanzata delle Forze Armate di Turchia e Iran nel territorio del Kurdistan iracheno.

Il Kurdistan iracheno

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