Israele e la sfida geopolitica: 180 giorni per non perdere il Medio Oriente

Di Chiara Cavalieri 

TEL AVIV. In un’analisi strategica di grande rilievo, Amit Yagur, Tenente Colonnello della riserva dell’Esercito israeliano ed ex funzionario dell’Intelligence navale, ha lanciato un forte monito alla leadership di Tel Aviv: Israele ha 180 giorni critici per ridefinire il proprio ruolo nel nuovo ordine geopolitico mediorientale.

Amit Yagur funzionario dell’intelligence navale israeliana

Il tempo è cruciale, e la mancata azione potrebbe condannare Israele all’irrilevanza politica e strategica nella regione.

Il nuovo scacchiere mediorientale

Il monito arriva in un momento di intensi cambiamenti.

Gli Stati Uniti hanno modificato drasticamente la propria postura in Medio Oriente: meno interventismo diretto, maggiore affidamento su alleati regionali.

Secondo Yagur, Turchia e Arabia Saudita hanno preso il posto di Israele come principali interlocutori di Washington.

Una realtà che, se non affrontata con determinazione, potrebbe segnare un punto di non ritorno per lo Stato ebraico.

L’epicentro di questa trasformazione è la Siria, sempre più centrale nella ridefinizione delle alleanze e dei ruoli nel Levante.

Gli Stati Uniti, infatti, hanno revocato temporaneamente (per 180 giorni) alcune delle sanzioni imposte al governo siriano, permettendo transazioni nei settori chiave dell’energia, delle acque, delle infrastrutture e persino nei media statali.

Una licenza generale emessa dal Dipartimento del Tesoro USA consente, per un periodo limitato, rapporti economici diretti con entità statali siriane.

Il ruolo della diplomazia americana e il pasto geopolitico

Tom Barrack inviato speciale USA per la Siria

 

Yagur cita le parole dell’inviato speciale USA per la Siria, Tom Barrack, che ha recentemente dichiarato: “Il Medio Oriente è come un pasto. O sei nella lista degli invitati, o sei nel menu.”

Una metafora brutale, ma efficace.

L’Amministrazione americana, in linea con l’orientamento isolazionista del Presidente Trump, sembra aver scelto una strategia di “outsourcing” geopolitico, affidando ad attori regionali – in particolare Ankara e Riyadh – il compito di stabilizzare, ricostruire e amministrare aree strategiche della regione.

Il Presidente americano Donald Trump

Turchia in Siria: basi e califfato economico

La Turchia, secondo fonti giornalistiche locali citate da Yagur, starebbe pianificando l’apertura di basi navali e aeree permanenti sul territorio siriano.

Il progetto si inscrive in una visione più ampia di Erdogan: fare della Turchia la porta di accesso economica tra Oriente ed Europa, riattivando l’idea di un califfato economico moderno, con Istanbul come centro nevralgico.

L’Arabia Saudita e la leadership sunnita

Anche l’Arabia Saudita ambisce a un ruolo guida nella ricostruzione post-bellica, non solo in Siria ma anche in Libano.

Il Regno ha già avviato colloqui per normalizzare le relazioni con Damasco e, come sottolinea Yagur, punta ad ottenere benefici economici attraverso una maggiore stabilità regionale e la fine dell’isolamento di alcune aree.

 L’Europa e il ruolo della Francia

Nel frattempo, la Francia si muove per rioccupare gli spazi lasciati liberi dalla Gran Bretagna, cercando di riaffermare la sua influenza in Libano, Siria e sulla questione palestinese.

Secondo Yagur, Parigi agisce per preservare gli accordi Sykes-Picot e i confini artificiali tracciati un secolo fa, nel tentativo di mantenere una certa coerenza diplomatica e storica nella regione.

Israele: tra Gaza, Iran e isolamento tattico

Tel Aviv, afferma Yagur, è al momento assorbita da minacce immediate, come il conflitto con Hamas a Gaza e la pressione crescente dell’Iran.

I contatti con Turchia e Siria, seppur avviati, restano limitati a coordinamenti tattici di sicurezza, troppo poco per affrontare una trasformazione così profonda degli equilibri regionali.

Questione palestinese: simbolo di legittimità panaraba

La questione palestinese continua a essere uno strumento di legittimazione panarabo. Nonostante la realtà sul terreno e l’opinione pubblica israeliana siano profondamente mutate dopo gli attacchi del 7 ottobre, la narrazione del “due popoli, due stati” resta centrale nel discorso diplomatico globale.

In questo quadro, si inserisce la Conferenza di Parigi (12–14 giugno), preludio a un altro incontro a New York (17–20 giugno), sponsorizzato dall’Arabia Saudita.

La corsa contro il tempo

Yagur lancia un appello: “Israele ha 180 giorni per definire il proprio posto nel nuovo ordine mediorientale, altrimenti saranno gli altri a farlo per noi.”

In concreto, propone: una grande campagna diplomatica e mediatica in India, per consolidare il Progetto IMEC (India-Medio Oriente-Europa Corridor), con Israele e India come piattaforme logistiche regionali.

E il rilancio di un “Piano Marshall per la Siria e il Libano”, condizionato alla normalizzazione delle relazioni con Israele da parte dei Paesi arabi.

Le minacce del “vecchio ordine

Yagur conclude con un monito severo:

Il pericolo non è solo la marginalizzazione di Israele, ma la possibile riemersione di forze del vecchio ordine, che per decenni hanno impedito una reale evoluzione politica nel Medio Oriente.

Con la guerra a Gaza che si avvia alla fine, molti attori stanno accelerando per riposizionarsi nel nuovo schema geopolitico. Se Israele resterà passivo, rischia non solo l’isolamento, ma anche l’erosione della propria capacità di influenza strategica.

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