Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Il 7 ottobre 2023 rappresenta uno spartiacque nella storia recente d’Israele non solo per l’ampiezza della violenza esercitata da Hamas, ma anche per la scelta simbolicamente devastante degli obiettivi: i kibbutzim del Sud.

Comunità come Kfar Aza, Be’eri, Nir Oz – fondate da pionieri del sionismo socialista, animate da valori progressisti e da un’idea di convivenza con i palestinesi – sono state colpite con una brutalità sistematica che ha assunto i tratti di un pogrom.

Questo attacco non ha colpito solo corpi, ma ha incrinato un’intera visione del mondo.
I kibbutzim nacquero nel primo Novecento come laboratori sociali ispirati al socialismo egalitario e al sionismo lavoratore.
Dopo il 1948 divennero avamposti dello Stato nascente e, successivamente, bastioni della sinistra israeliana, promotori del dialogo con l’OLP e sostenitori convinti della soluzione dei due Stati.
In particolare, quelli del Negev occidentale – prossimi alla Striscia di Gaza – hanno promosso negli anni iniziative di cooperazione con le comunità palestinesi limitrofe, talvolta ospitando lavoratori di Gaza o partecipando a progetti di dialogo transfrontaliero.
Il trauma del 7 ottobre, pertanto, non è solo materiale ma ideologico: è stato inferto proprio a coloro che più di altri credevano che la convivenza fosse possibile.
Il paradosso è crudele: le comunità più pacifiste sono state le prime ad essere colpite, le più ferocemente massacrate.
L’immaginario fondativo di Israele come “luogo di giustizia sociale” è stato messo alla prova da una realtà in cui la vulnerabilità non ha trovato scampo neppure in chi cercava ponti, non muri.
In seguito agli attacchi, la sinistra israeliana si è trovata in una crisi senza precedenti.
Se negli anni precedenti aveva già subito un declino elettorale e ideologico, oggi si confronta con l’erosione dei suoi capisaldi morali.
La narrativa secondo cui “la pace si costruisce con il dialogo” appare, agli occhi di molti, come un’illusione disarmata di fronte alla violenza assoluta.
È tornata a dominare una logica hobbesiana, secondo cui solo la forza garantisce la sopravvivenza. Persino nel discorso pubblico progressista è emersa la richiesta di una risposta militare forte, di una ridefinizione dei parametri della sicurezza.
In questa fase, il tradizionale dualismo tra pacifismo e realismo militare si frantuma.
La sinistra deve ora rielaborare il proprio rapporto con l’idea di sicurezza, con l’identità nazionale, con la natura stessa del nemico.
Il dilemma è drammatico: mantenere una coerenza morale in un contesto che premia la deterrenza, oppure adattarsi alle logiche dell’asimmetria bellica.
Il destino politico e culturale dei kibbutzim sarà centrale nella ridefinizione dell’identità israeliana.
Se queste comunità sapranno rigenerarsi senza rinnegare i propri valori fondativi, potranno fungere da punto di riferimento per una nuova sintesi tra sicurezza e dialogo, tra resistenza e convivenza.
Altrimenti, il rischio è la loro marginalizzazione definitiva in favore di una narrazione esclusivamente securitaria e identitaria.
Questa crisi richiama analogie profonde con gli snodi storici della società israeliana – dal trauma del 1973 alla seconda Intifada – ma si inserisce in un contesto nuovo: quello della “nuova guerra” ibrida contro le democrazie, dove attori non statali come Hamas sono strumenti strategici nelle mani di potenze revisioniste regionali, in primis l’Iran, nel quadro più ampio della competizione sistemica tra autocrazie e democrazie.
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