Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Nei giorni scorsi, l’Aeronautica militare israeliana ha colpito obiettivi militari e istituzionali a Damasco e nella regione di Sweida, in risposta a una serie di violenze settarie che hanno provocato tra i 500 e i 600 morti tra la popolazione drusa.
Si tratta del più grave episodio di violenza intercomunitaria in Siria dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad nel dicembre 2024.

La decisione israeliana di intervenire militarmente si inserisce nel contesto del Medio Oriente post-statuale, dove il collasso del potere centrale siriano ha lasciato spazio all’emergere di entità armate etniche e settarie, spesso in lotta tra loro per il controllo territoriale.
Il massacro dei drusi a Sweida, perpetrato da milizie beduine filogovernative, sembra seguire una logica punitiva: colpire una comunità percepita come ambigua, sospettata di intrattenere rapporti con Israele o di coltivare aspirazioni autonomiste.
La reazione di Tel Aviv va compresa all’interno di due coordinate strategiche.
La prima è la rielaborazione della dottrina Begin, promossa da Benjamin Netanyahu dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023.

Da quel momento, Israele ha assunto una postura militare improntata all’azione preventiva contro ogni attore percepito come minaccia, soprattutto se coinvolto in massacri che evocano il rischio di genocidio.
In questa prospettiva, l’eccidio di Sweida, pur diverso dal 7 ottobre per natura e scala, è stato narrato come un evento moralmente comparabile, in grado di giustificare un’azione militare immediata.

Il parallelo ha una funzione strategica: riaffermare l’impegno israeliano nella difesa delle comunità minacciate, in particolare se legate al mondo druso.
La seconda cornice è quella della protezione delle minoranze come strumento geopolitico. Israele intrattiene da tempo un’alleanza informale con le comunità druse presenti in Siria, Libano e all’interno dei propri confini.
L’intervento aereo è stato presentato come un dovere morale, ma si inserisce in una logica di contenimento dell’espansione iraniana nella regione.
Il vuoto lasciato dal collasso dello Stato siriano rischia infatti di essere colmato da gruppi filoiraniani, pronti a stabilire basi permanenti in prossimità del confine israeliano.
In questo quadro, la retorica del “massacro in stile 7 ottobre” serve anche a costruire un consenso interno e internazionale per una politica di deterrenza e controllo territoriale nel sud della Siria, vicino alle Alture del Golan.
L’operazione militare israeliana suggerisce alcune implicazioni di lungo periodo.
In primo luogo, Israele ridefinisce la propria proiezione strategica: non più soltanto potenza difensiva, ma attore che interviene a tutela delle minoranze in contesti frammentati, seguendo una logica simile a quella adottata dalla Russia in Abkhazia o dalla Turchia nel Nord dell’Iraq.
In secondo luogo, la Siria post-Assad entra in una fase di ulteriore disgregazione, con la possibile nascita di entità armate autonome.
La regione di Sweida potrebbe trasformarsi in una zona cuscinetto sotto tutela informale israeliana.
Infine, il trauma del 7 ottobre viene progressivamente assunto come parametro politico, una sorta di unità di misura attraverso cui Israele valuta le crisi regionali e legittima le proprie azioni militari.
L’intervento in Siria, formalmente giustificato come reazione a un massacro settario, rappresenta dunque l’utilizzo strategico di un precedente traumatico per definire una nuova dottrina di sicurezza.
Nella Siria disgregata, la difesa delle minoranze non è soltanto un obbligo etico, ma diventa una leva per ridefinire l’equilibrio regionale.
Israele non si limita più a difendere i propri confini: stabilisce nuovi margini di intervento preventivo, fondati su motivazioni umanitarie e affinità settarie.
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