Israele: le implicazioni dell’alleanza tra sionismo cristiano ed ebraismo

Di Amr Helmy*

IL CAIRO. Le grandi alleanze, siano esse di natura politica o intellettuale, hanno rappresentato lungo il corso della storia uno dei motori più influenti nel ridisegnare gli equilibri di potere e nel forgiare l’immagine dell’ “altro” nella coscienza collettiva.

Teodoro Herzl, padre del Sionismo

In tale prospettiva, l’intesa tra sionismo cristiano occidentale (Western Christian Zionism) ed ebraismo si configura come uno dei fattori determinanti che hanno plasmato l’atteggiamento occidentale nei confronti delle questioni mediorientali.

Questa alleanza, che si radica tanto in motivazioni di carattere teologico quanto in strategie di impronta coloniale, non si è limitata a sostenere il progetto ebraico in Palestina, ma ha anche generato un discorso globale che dipinge gli avversari dell’Occidente come una minaccia alla civiltà moderna, riducendo al minimo le possibilità di dialogo e cooperazione.

Il sionismo cristiano emerse nel XVII secolo come corrente politico-religiosa interna al protestantesimo occidentale, radicandosi soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

La sua dottrina poggia sull’idea che il ritorno degli ebrei in Palestina costituisca una condizione imprescindibile per il compimento delle profezie evangeliche riguardanti la seconda venuta di Cristo.

Questo orientamento non rimase confinato a speculazioni teologiche, ma si tradusse ben presto in un sostegno politico concreto al progetto ebraico.

Con l’affermazione del sionismo ebraico come movimento nazionale laico nel XIX secolo, entrambi i fronti trovarono un terreno comune in cui fede religiosa e obiettivi politici si intrecciavano, legandosi alle dinamiche coloniali europee: dalla Dichiarazione Balfour del 1917 fino al sostegno statunitense e occidentale a Israele.

Balfour a Gerusalemme nel 1917

Tale convergenza conferì all’alleanza una dimensione ideologica atta a giustificare l’ingerenza occidentale in Medio Oriente.

La pericolosità di questa alleanza si è manifestata soprattutto nelle sue ricadute politiche: il sostegno occidentale a Israele è divenuto saldo e strategico.

Henry Kissinger

Henry Kissinger affermò con chiarezza che la sicurezza di Israele rappresenta un interesse nazionale americano non soggetto a compromessi.

Contestualmente, il discorso orientalista ha contribuito a consolidare un’immagine stereotipata dell’Islam quale religione intrinsecamente refrattaria alla modernità e ostile al progresso.

Lo storico anglo-americano Bernard Lewis sottolineò, in tal senso, l’“incapacità strutturale del mondo islamico di adattarsi ai valori occidentali”.

Tale prospettiva tradisce un’impostazione eurocentrica e gerarchica, in cui il successo delle altre società viene misurato unicamente in rapporto alla loro somiglianza con il modello occidentale, ignorando specificità culturali ed esperienze storiche plurali.

Questa impostazione si è riflessa potentemente nei mezzi di comunicazione di massa: i musulmani sono stati sistematicamente associati alla violenza e al terrorismo, ridotti a cliché cinematografici o giornalistici come guerriglieri fanatici o potenziali minacce alla sicurezza.

Gli attacchi di New York dell’11 settembre 2001

Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, tale rappresentazione si è radicalizzata fino a divenire un paradigma dominante nei dibattiti su sicurezza, immigrazione e multiculturalismo.

L’Amministrazione di George W. Bush seppe sfruttare questo clima per lanciare la cosiddetta “guerra al terrorismo”, che di fatto si configurò come pretesto per un riassetto geopolitico del Medio Oriente: dall’invasione dell’Afghanistan nel 2001 all’occupazione dell’Iraq nel 2003.

Unità Cinofile inglesi in Afghanistan

Analogo pregiudizio si riscontra nella narrazione della questione palestinese, dove l’occupazione israeliana viene frequentemente rappresentata come legittima autodifesa, mentre la sofferenza palestinese resta marginalizzata.

Tale dinamica riflette la profondità dell’alleanza tra sionismo cristiano occidentale e Israele, che ha trasferito la memoria della persecuzione storica degli ebrei in un ruolo di vittima perpetua, negando ai palestinesi la possibilità di essere riconosciuti all’interno di una narrazione di giustizia storica.

Edward Said, nel suo celebre Orientalism, mise in luce come i discorsi occidentali sull’Oriente – e in particolare sull’Islam – non riflettessero una conoscenza oggettiva, bensì un rapporto di forza asimmetrico tra Occidente colonizzatore e Oriente colonizzato.

La produzione di sapere, lungi dall’essere neutrale, si configurava come strumento di dominio: l’Oriente veniva dipinto come entità arretrata, fornendo un alibi ideologico per legittimare la necessità di “riformarlo”, “contenerlo” o persino “aggressarlo” mediante interventi politici e militari che si tradussero in esiti disastrosi.

Analogamente, Noam Chomsky sostenne che la “guerra al terrorismo” fosse nient’altro che un espediente volto a imporre l’egemonia americana in aree strategiche, legittimata da una retorica mediatica che demonizzava l’Islam.

John Esposito, docente alla Georgetown University, ha invece dimostrato come la maggioranza dei musulmani nel mondo non condivida affatto visioni estremiste, e come la percezione dell’Islam come minaccia rifletta più una costruzione politica che una realtà religiosa.

In definitiva, l’alleanza tra sionismo cristiano occidentale ed ebraismo ha avuto l’effetto di consolidare un paradigma di contrapposizione che rende arduo qualsiasi percorso di riconciliazione.

Essa ha dato vita a un sistema culturale e politico che legittima l’asimmetria di potere e marginalizza le voci alternative, in particolare quelle provenienti dal mondo arabo e musulmano.

Comprendere le radici di questa dinamica è essenziale non solo per analizzare la questione palestinese, ma anche per interrogarsi sul futuro dei rapporti tra Occidente e Oriente: rapporti che potranno diventare davvero costruttivi solo quando l’“altro” non sarà più percepito come minaccia, ma come interlocutore alla pari in un dialogo di civiltà.

*L’autore è stato Ambasciatore d’Egitto in Italia dal 2013 al 2017. Attualmente è membro del Senato egiziano e autore di numerosi articoli a carattere politico, economico e culturale.

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