Di Pierpaolo Piras
Gaza. Il cannone tace, ma non l’odio e il dissidio politico tra Israele e Gaza.
Le due popolazioni, israeliani e palestinesi, festeggiano con canti e balli per le rispettive strade urbane.
Nessuno, invece, pronuncia le giuste parole di cordoglio e rammarico per le immani distruzioni delle abitazioni e per le numerose vittime, morti e feriti, in massima parte civili, di questo ennesimo conflitto.
I maggiori esponenti politici mondiali hanno formalmente salutato questo “cessate il fuoco” che ha tutta l’aria di essere fasullo se relazionato agli intenti febbrili di entrambi i lati.
Ad esempio, il ruolo simbolico di Gerusalemme si amplierà, approfondendo la caratterizzazione e conflittualità religiosa del conflitto.
Tra gli israeliani più anziani e i palestinesi, questi sviluppi segnano il ritorno a una fase storicamente più antica del conflitto.
Le ultime due settimane hanno poi rafforzato la convinzione che le relazioni reciproche siano di nuovo esistenziali e in ogni caso a somma zero.
Ma, quel che è peggio, è aumentata la percezione che la diplomazia adoperata per risolvere il conflitto sia inutile e che la scelta bellica sarà nuovamente inevitabile.
La politica palestinese
Negli ultimi anni, la politica palestinese è stata afflitta da una serie di battute d’arresto.
L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) internazionalmente riconosciuta e deputata a governare temporaneamente i territori palestinesi) ha gravemente minato la fiducia del popolo nella sua capacità di governare.
Non avendo tenuto elezioni generali dal 2006, l’ANP, in Cisgiordania, ha posto in dubbio lo Stato di diritto, indebolito il sistema giudiziario, ridotto le libertà dei media, lesionato la propria credibilità politica e di conseguenza lo spazio di libertà disponibile per la società.
Le organizzazioni civili hanno perso gran parte della loro indipendenza dal governo.
Finora, il risultato è stato il crescente malcontento dell’opinione pubblica, accompagnato da richieste ferme di dimissioni del Presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas.
Il comportamento del movimento radicale Hamas (prevalente nella Striscia di Gaza) non è stato migliore: contestato per le costanti violazioni delle norme giuridiche previste dallo Stato di diritto, è diventato sempre più spietato nella prassi sia politica che diplomatica, governando con il solo aiuto dell’intimidazione e del Kalashnikov.
Lo scoppio di queste ultime ostilità ha permesso ad Hamas di coordinarsi cercando di affermare il proprio primato all’interno del movimento nazionale palestinese.
Si è posizionato come unico e più potente protettore di Gerusalemme e della moschea Al Aqsa (terzo santuario dell’intero Islam).
E si propone come punta di diamante nella lotta nazionale e religiosa palestinese contro gli israeliani. Inoltre asserisce le proprie posizioni come voce prevalente della minoranza araba all’interno d’ Israele.
Dalle rovine di Gaza, Hamas ha proclamato la vittoria, non necessariamente militare, ma nella mente della sua gente.
A questo punto, Hamas mira a raggiungere i suoi obiettivi principali: un’Autorità Palestinese totalmente screditata e il rafforzamento del proprio prestigio come garante e protettore ultimo dei luoghi santi di Gerusalemme.
L’aspetto più paradossale è che Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, non appare interessato a distruggere militarmente Hamas.
Al contrario: sembra condividere con Hamas stesso un tacito accordo contro l’Autorità Palestinese di Abbas che nel corso dei suoi governi, ha cercato di indebolire e umiliare con tutti i mezzi.
Uno Stato sotto il controllo di Hamas a Gaza è per Netanyahu, il pretesto ideale per rifiutare i negoziati di pace e una soluzione politica che preveda due Stati.
Il capo del governo israeliano ha persino consentito al Qatar di pagare gli stipendi dei funzionari amministrativi di Hamas pur di mantenere in vita Gaza.
Le scelte d’Israele
Israele rivendica la vittoria ma, da popolo pragmatico, senza troppa enfasi.
La fragile convivenza tra ebrei e arabi (20% della popolazione d’Israele) all’interno dei suoi confini è stata scossa.
Anche se l’escalation della violenza si intensificasse in futuro, è già diventato chiaro ai due contendenti che l’era delle guerre e delle gloriose vittorie è passata.
Tra i due belligeranti, solo Israele possiede una strategia politico militare proiettata ad essere efficace nel lungo periodo.
Il pericolo strategico
In questo episodio bellico, il governo e lo Stato Maggiore israeliano sono stati colti di sorpresa.
Hamas ha lanciato un attacco missilistico su una scala mai vista prima, sulle città israeliane.
Hanno persino cercato di colpire Gerusalemme, Tel Aviv ed altre grandi città e centri industriali, costringendo la popolazione a correre, rapidamente, nei rifugi.
Gli israeliani ora non possono nutrire dubbi sul fatto che il loro variegato fronte interno possa resistere contemporaneamente ad una seconda guerra, stavolta contro gli Hezbollah, la milizia sostenuta dall’Iran e presente nel Libano meridionale.
Qui, gli Hezbollah dispongono di un arsenale di 150 mila missili, molto più letali di quelli fatti esplodere da Hamas.
Il problema dei coloni
La popolazione costituita da coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, dove dovrebbe emergere uno Stato palestinese, è cresciuta di sette volte dagli anni ’90.
Una volta ai margini della politica israeliana, il movimento dei coloni costituisce ora l’avanguardia della destra israeliana.
E, come i suoi alleati statunitensi nel Partito Repubblicano, la destra israeliana non ha alcun interesse a perseguire gli obiettivi dei due Stati, la cui esistenza è stata sancita dagli Accordi di Oslo nel 1993.
In che modo la tensione attuale influenzerà le prospettive di una pace a lungo termine?
Sul fronte israelo-palestinese, la soluzione dei due Stati (Israele e Territori palestinesi uniti) potrebbe aver ricevuto un colpo mortale.
Visti gli sforzi israeliani per emarginare Abbas e l’Autorità palestinese, non sarà facile tenere la Cisgiordania fuori dal l’eventuale prossimo conflitto: in questo caso il coordinamento tra Israele e l’Autorità europea per la sicurezza non sarà sufficiente a contenere la ripresa delle ostilità.
Poi, bisognerà confrontarsi con la retorica sull’annessione della Cisgiordania: nessun governo israeliano di destra sarà disposto o in grado di rinnovare tale processo politico che richiederebbe lunghi negoziati con la leadership dell’ ANP.
Prospettive per l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP)
A livello nazionale, Abu Abbas riuscirà a rimanere in carica solo finché sarà in grado di impedire lo svolgimento delle elezioni.
Il crescente malcontento popolare unitamente alla limitata capacità operativa dei servizi di sicurezza dell’ANP, potranno mantenere il controllo repressivo sulla popolazione per un tempo limitato, ma non per sempre.
Le elezioni e le riforme politiche sono l’unico mezzo che le autorità palestinesi hanno per rendere il sistema nuovamente legittimo e responsabile.
Coloro che rifiutano le libere elezioni perché magari Abbas le perderà o perché il processo politico naturale potrebbe legittimare Hamas, dovrebbero considerarne le conseguenze.
Ignorare tale problema e tenere Hamas all’angolo nel limbo politico della Striscia di Gaza non è e non sarà mai realisticamente valutabile come una soluzione.
Le reazioni internazionali
Al momento attuale, non ci si deve illudere del ruolo della comunità internazionale in questo teatro di conflittualità medio-orientale.
Nessun governo si è sbilanciato in dichiarazioni nette o, ancor meno, con atti concreti.
Nella migliore delle ipotesi, gli Stati arabi e altri, tra cui Washington, intendono e possono contribuire a gestire il conflitto solo rendendo sostenibile lo status quo.
Gli USA non hanno la volontà politica di costringere politicamente Israele o Abbas e l’Autorità palestinese a rispettare le norme dello Stato di diritto e di buon governo.
Per quanto difficile possa essere nell’immediato, israeliani e palestinesi dovranno farlo da soli.
Israele è già una democrazia completa e sperimentata, l’unica di tutto il medio-oriente.
Hamas ha pubblicamente elogiato l’Iran per la sua assistenza, finanziaria e militare, che secondo gli esperti ora assume principalmente la forma di progetti e know-how ingegneristico, sofisticati sistemi meccanici e altre super competenze tecniche.
Il Dipartimento di Stato americano riferisce che l’Iran fornisce circa 100 milioni di dollari all’anno ai gruppi armati palestinesi.
Il sostegno forte degli USA ad Israele non è mancato.
Gli Stati Uniti hanno utilizzato l’efficacia ed il massimo riserbo tipico dello strumento diplomatico al clamore dei social media.
In tal modo la leadership di Washington si è dimostrata ancora una volta virtuosa e essenziale.
Non è un caso che dopo impegni quasi continui ai massimi livelli con tutti gli attori regionali necessari , è passato solo un giorno tra lo schietto appello di Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti, alla riduzione delle ostilità per determinare il voto favorevole del gabinetto di sicurezza israeliano al cessate il fuoco con Hamas.
Fin dai primi momenti, gli Stati Uniti sono stati ritenuti come a una nazione indispensabile, come nessun altro in questo conflitto.
L’incertezza è e rimarrà tanta, come d’altra parte tutto ciò che storicamente è stato in medio-oriente nell’ultimo secolo e tutto ciò che senza dubbio accadrà dopo: questo cessate il fuoco è intrinsecamente fragile e non affronta i conflitti, in parte insanabili, sottostanti tra israeliani e palestinesi.
Ma ha fermato la carneficina: almeno per un po’.
In ogni caso, è stato un successo per la professionalità diplomatica del Presidente Biden e della sua squadra.
Si spera che serva anche da lezione per coloro che ostacolano l’importanza di mantenere la leadership strategica americana nella regione.
L’armamento di Hamas
In quest’ultima guerra, Hamas ha svelato nuove armi come droni d’attacco, droni da sottomarini senza equipaggio inviati in mare e un razzo non guidato chiamato “Ayyash” con una portata di 250 chilometri (155 miglia).
Con il suo sofisticato sistema antimissile “Iron Dome”, Israele sostiene che questi nuovi sistemi sono stati sventati o non sono riusciti a compiere attacchi diretti.
Le milizie di Gaza hanno utilizzato razzi di origine straniera come “Katyushas” e il “Fajr-5” forniti dall’Iran, utilizzati anche durante le guerre del 2008 e del 2012 con Israele.
Altri razzi erano riassemblati a partire da componenti di fabbricazione iraniana, con gittata fino a 80 chilometri e testate piene di 175 chilogrammi di esplosivo.
Sono stati utilizzati anche missili israeliani inesplosi da precedenti attacchi per estrarre il materiale esplosivo.
Per produrre razzi a testata chimica, Hamas ha mescolato propellenti vari con sostanze utilizzate come fertilizzanti, forti ossidanti e altri ingredienti
©RIPRODUZIONE RISERVATA