Di Chiara Cavalieri*
IL CAIRO. Un annuncio di portata storica è giunto da Parigi: la Turchia, gli Stati Uniti d’America, il Qatar e l’Egitto formeranno un gruppo di lavoro congiunto per supervisionare l’attuazione dell’accordo di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza.
L’annuncio è stato dato dal ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, il quale ha spiegato che l’organismo agirà per monitorare e garantire la piena applicazione delle clausole dell’intesa, intervenendo come mediatore in caso di ostacoli politici o militari.

Secondo quanto dichiarato da Fidan, la forza multinazionale di sicurezza, prevista dal piano di pace promosso dal Presidente americano, includerà contingenti di Stati Uniti, Turchia, Qatar ed Egitto, affiancati da osservatori internazionali. Il mandato è chiaro: garantire la tenuta del cessate il fuoco, supervisionare il ritiro delle truppe israeliane, assicurare l’ingresso degli aiuti umanitari e avviare la fase di ricostruzione.
“In sostanza, si tratta di un gruppo di mediazione che svolgerà i propri compiti per attuare le disposizioni pertinenti dell’accordo – ha dichiarato Fidan, sottolineando che il gruppo interverrà solo in caso di problemi durante la fase di attuazione.
Trump: “Abbiamo posto fine alla guerra a Gaza”
Alle dichiarazioni turche si sono aggiunte quelle del Presidente americano Donald Trump, che ha celebrato pubblicamente il successo della mediazione internazionale.
“Abbiamo posto fine alla guerra a Gaza e credo che ci sarà una pace duratura. Tutti i paesi della regione erano d’accordo sulla pace e gli ostaggi saranno rilasciati lunedì o martedì”, ha dichiarato Trump giovedì pomeriggio.
Il Presidente americano ha anche rivelato le cifre della devastazione subita da Gaza durante il conflitto: “Gaza ha perso circa 70.000 persone e questa guerra deve finire”.

Trump ha annunciato la sua intenzione di partecipare alla cerimonia della firma dell’accordo in Egitto, aggiungendo: “Cercherò di andare in Medio Oriente e ci sarà una cerimonia di firma dell’accordo in Egitto. Siamo orgogliosi del nostro ruolo nel porre fine al terribile conflitto a Gaza”.
Ha infine sottolineato che diversi Paesi forniranno ingenti somme di denaro per la ricostruzione della Striscia, e che questa fase sarà sostenuta da un consenso internazionale inedito: “Ciò che accadrà sarà meraviglioso per la Striscia. Il mondo intero si è unito agli sforzi per il cessate il fuoco a Gaza, anche le parti che non erano d’accordo”.
L’Egitto e il peso della diplomazia
In questo quadro, l’Egitto ha avuto un ruolo determinante. L’ambasciatore Amr Helmy membro del Senato egiziano, ha definito l’intesa “un traguardo storico per la diplomazia egiziana”, evidenziando come il presidente sia riuscito a far prevalere la voce della ragione e della prudenza rispetto alla logica della guerra.

L’Egitto si è opposto fin dal primo giorno a qualsiasi ipotesi di sfollamento forzato dei palestinesi nel Sinai.
La mobilitazione dell’Esercito egiziano lungo il confine orientale e i messaggi inviati a Israele e Washington hanno rafforzato la credibilità del Cairo come attore di equilibrio.
“Abbiamo lavorato per fermare lo spargimento di sangue e difendere la stabilità regionale – ha dichiarato Helmy a caldo -. Il popolo egiziano non avrebbe mai accettato lo spostamento forzato dei palestinesi nel Sinai. Questo accordo dimostra che la diplomazia, se sostenuta da fermezza e chiarezza di principi, può ancora fermare la guerra”.
Helmy ha sottolineato che il cessate il fuoco, la liberazione di ostaggi e prigionieri e il passaggio degli aiuti umanitari sono frutti di una strategia coerente, non improvvisata. L’invito del presidente al-Sisi a Donald Trump a visitare l’Egitto conferma il peso politico di questa mediazione e apre una fase in cui il Cairo torna a essere un perno della sicurezza regionale.
Hamas: pressione senza precedenti e mossa di sopravvivenza

Ciò che ha spinto Hamas ad accettare di rinunciare alla sua principale leva negoziale – gli ostaggi israeliani – nella fase 1 dell’accordo è stata l’enorme e senza precedenti pressione esercitata sul gruppo terroristico da Turchia, Qatar ed Egitto.
●La Turchia punta a ottenere la rimozione delle sanzioni, l’accesso al caccia stealth F-35 Lightning II, nuovi F-16 Fighting Falcon e una cooperazione rafforzata con gli Stati Uniti.
●Il Qatar ha ottenuto le scuse da Israele per il raid aereo fallito e un impegno da parte di Washington a garantire la sicurezza nazionale di Doha con un nuovo accordo strategico. In cambio, ha dovuto consegnare gli ostaggi — e questo significa, di fatto, consegnare Hamas.
●L’Egitto ha alzato la posta mobilitando le proprie forze armate al confine orientale, mandando un messaggio chiaro: lo sfollamento verso il Sinai sarebbe stato un casus belli politico e diplomatico.
Nel complesso, i tre Paesi hanno esercitato una pressione coordinata e fortissima su Hamas, in un momento in cui il movimento è isolato, militarmente indebolito, con i suoi alleati sconfitti e privo di alternative strategiche.
La perdita della leva degli ostaggi priva Hamas di un’arma politica e psicologica fondamentale. È una mossa di sopravvivenza, non di forza. Con la rete di finanziamenti sempre più sotto controllo, la struttura militare logorata e il consenso interno eroso, Hamas si trova ora a dover ridefinire la propria strategia.
Israele: cauto ottimismo, ma problemi irrisolti
La reazione israeliana è stata improntata a un cauto ottimismo, come ha dichiarato Josef Jonas, CEO di RAM Learning Services e fondatore della pagina “Ebrei e Israele”.

“C’è gioia per la fine dei combattimenti e il ritorno degli ostaggi, ma il problema palestinese non è risolto: è stato solo rimandato – ha spiegato Jonas -. Entro cinque anni potremmo trovarci di fronte a un nuovo 7 ottobre”.
Jonas ha sottolineato che oltre due milioni di palestinesi vivono nella Striscia di Gaza in condizioni precarie e che non rinunceranno alle proprie aspirazioni nazionali.
Ha inoltre evidenziato due fronti caldi:
- il ruolo dell’Iran e dell’Fratellanza Musulmana, che continueranno a influenzare la regione;
- la Cisgiordania, dove Ramallah potrebbe trasformarsi in una nuova Gaza se la spirale di violenza non si fermerà.
“Oggi festeggiamo – ha concluso Jonas -. Ma domani dovremo fare i conti con tutto ciò che questo accordo non risolve”.
Un equilibrio fragile, ma una finestra di opportunità
L’accordo di Gaza non è solo il risultato di un miracolo diplomatico, ma di una convergenza di interessi.
- La Turchia cerca vantaggi strategici e un ritorno a un dialogo privilegiato con Washington.
- Il Qatar consolida la propria centralità diplomatica e ottiene garanzie di sicurezza.
- L’Egitto difende i propri confini e rafforza il suo ruolo regionale.
- Gli Stati Uniti riaffermano la loro leadership nel Medio Oriente.
- Israele ottiene la liberazione degli ostaggi e una tregua militare.
- Hamas evita l’annientamento immediato, ma ne esce fortemente indebolito.
La forza multinazionale guidata dai quattro Paesi e dagli osservatori internazionali sarà il perno per garantire la stabilità del cessate il fuoco, il ritiro ordinato delle forze israeliane, il transito degli aiuti umanitari e la ricostruzione. Ma il futuro politico della Striscia resta una questione aperta, complessa e delicata.
Come ha sintetizzato Jonas: “Oggi festeggiamo. Domani ci penseremo.”
Dietro la tregua, infatti, rimangono irrisolti i nodi strutturali del conflitto israelo-palestinese: lo status della Cisgiordania, la questione di Gerusalemme, il ruolo dell’Iran e la ridefinizione del potere nella Striscia di Gaza, che verrà affidato per ora a 15 tecnocrati .
*L’autrice è presidente della associazione Italo-Egiziana Eridanus e vice presidente del Centro Studi UCOI-UCOIM.
@RIPRODUZIONE RISERVATA