Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. E’ arrivata, nella notte da Sharm el Sheik, la notizia che era stato raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza.
Alle 11 prevista la firma e alle 13 si riunisce il Governo israeliano per l’approvazione.
L’IDF lascerà la Striscia, ad eccezione di Rafah, già nelle prossime ore.
I rapiti, in mano ad Hamas, torneranno liberi (probabilmente lunedì) in cambio di 1.950 palestinesi.
Alcuni dei punti più controversi, come il disarmo di Hamas e la questione della governance a Gaza, dovranno essere negoziati in seguito.
Lo ha affermato Abc News, citando funzionari a conoscenza del dossier.
E’ stato lo stesso Presidente americano Donald Trump ad annunciarlo con una dichiarazione pubblica.
Trump ha anche aggiunto che domenica sarà a Gerusalemme per parlare alla Knesset.

L’accordo è stato raggiunto in coordinamento con il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Il piano prevede il ritiro dell’IDF da gran parte del territorio, con l’eccezione strategica di Rafah.

La notizia è stata accolta con prudente attenzione da osservatori e media israeliani, che anticipano la firma dell’accordo già nelle prossime ore e un primo rilascio di ostaggi da parte di Hamas entro il fine settimana.

Sebbene l’esclusione di Marwan Barghouti dal piano confermi che non si tratti ancora di una svolta definitiva, l’accordo rappresenta un importante segnale di discontinuità rispetto allo stallo violento degli ultimi mesi.
L’iniziativa si inserisce nel più ampio tentativo di Donald Trump di riaffermare la propria centralità geopolitica. Rieletto nel 2024 con una piattaforma sovranista e isolazionista, il Presidente americano sembra voler rilanciare la sua immagine internazionale puntando nuovamente sul suo profilo di “deal-maker” globale.
La logica rimane quella della transazione, in cui gli Stati Uniti tornano a essere protagonisti diretti nelle trattative, svincolandosi dai meccanismi multilaterali delle presidenze precedenti. Tuttavia, a differenza degli Accordi di Abramo del 2020, oggi l’attenzione si sposta dalla normalizzazione tra Israele e i Paesi del Golfo al cuore irrisolto della questione mediorientale: la rappresentanza palestinese e la stabilizzazione di Gaza.

Il mancato inserimento di Barghouti tra i possibili rilasciati resta un nodo significativo. Figura emblematica della resistenza palestinese legata a Fatah, Barghouti avrebbe potuto fungere da ponte per una riconciliazione interna, oggi ancora lontana.
Ma proprio questa assenza, per quanto problematica, rivela la natura progressiva dell’intesa: non un punto di arrivo, ma un’apertura, un tentativo di sganciarsi dalla spirale dell’intransigenza.
L’accordo, pur parziale, indica che le parti riconoscono l’urgenza di una tregua, non solo per ragioni tattiche ma anche per evitare che il vuoto lasciato dai combattimenti venga riempito da nuovi attori radicali.
Sul terreno, la decisione israeliana di mantenere il controllo di Rafah lascia aperta la questione del pieno ritiro e dell’accesso di aiuti umanitari.il
Tuttavia, la disponibilità a retrocedere da gran parte della Striscia è un segnale forte, probabilmente frutto anche delle pressioni internazionali e del crescente costo politico e umano dell’operazione militare. Hamas, dal canto suo, accettando un primo rilascio di ostaggi, mostra una volontà – per ora solo embrionale – di tornare a un confronto politico, magari per evitare una completa marginalizzazione sul piano regionale.
In questo scenario, gli Stati Uniti sembrano voler archiviare l’approccio multilaterale dell’ex Presidente Joe Biden in favore di un realismo operativo che, seppur controverso, punta a risultati concreti. L’Europa, invece, appare ancora una volta spettatrice, priva di strumenti di pressione o visione unitaria.
Ma ciò non toglie che, anche nei suoi limiti, l’accordo inneschi un potenziale positivo: una tregua, per quanto fragile, può sempre diventare terreno fertile per un nuovo processo, se accompagnata da diplomazia paziente, aperture coraggiose e mediazioni lungimiranti.
È vero, la pace resta lontana, e nessuno dei nodi centrali – dallo status di Gerusalemme al riconoscimento reciproco – è stato affrontato.
Ma in un contesto segnato da anni di guerre a cicli ricorrenti, anche una tregua parziale può essere letta come un primo passo verso una riappacificazione possibile.
Rafforzare le istituzioni palestinesi moderate, ricucire il rapporto tra Gaza e Cisgiordania, e garantire sicurezza a lungo termine per Israele sono obiettivi ambiziosi, ma non impossibili se il cessate il fuoco odierno verrà gestito con visione politica e non come semplice pausa operativa.
Il rischio di ricadute è alto, e nessuno può escludere una riaccensione del conflitto.
Ma l’accordo di oggi, per quanto incompleto, riapre uno spazio per la diplomazia, rompe una logica puramente militare e offre uno spiraglio, per quanto sottile, verso una normalizzazione progressiva.
In Medio Oriente, ogni piccolo passo conta.
E questo, oggi, è un passo nella direzione giusta.
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