Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. Religioni, nazionalismi, diritto bellico e strategie in Siria, Israele Palestina, Yemen, Libano.
Nel cuore incandescente del Medio Oriente, le mappe si tracciano con il sangue e si riscrivono con la sabbia.

Gli Eserciti passano, gli Imperi crollano, ma il paradosso persiste: là dove nacquero le tre grandi religioni monoteiste, si continua a combattere in loro nome. Siria, Israele Palestina, Yemen, Libano, Iraq: ogni granello di terra è intriso di narrazioni etniche e confessionali contrapposte, ferite identitarie che continuano a sanguinare anche quando sembrano essersi cicatrizzate.
Le religioni non sono solo un fattore identitario: sono matrici di visione del mondo, dispositivi simbolici, architetture di potere.
Nel Medio Oriente, dove ebraismo, cristianesimo e islam si sono radicati e contrapposti, la dimensione religiosa agisce come forza moltiplicatrice del conflitto.
Non basta dire che si combatte anche per la religione: spesso è attraverso di essa che si legittimano le strategie, si plasmano le narrazioni, si mobilitano i combattenti.
Nell’Islam, la frattura sunniti-sciiti è insieme teologica e geopolitica: due visioni dell’autorità spirituale che si traducono oggi in due blocchi rivali, incarnati rispettivamente da Arabia Saudita e Iran.
I sunniti rivendicano l’ortodossia e il primato della umma come comunità politica; gli sciiti si riconoscono nella guida spirituale dell’imamato e nel principio del martirio come resistenza.
Ogni alleanza, ogni milizia – dai Pasdaran ai Fratelli Musulmani, da Hezbollah ad Al-Qaeda – si inserisce in questo codice religioso-ideologico che plasma tanto l’ethos guerriero quanto le dottrine di impiego operativo.
L’ebraismo, nella sua declinazione sionista, ha fondato lo Stato d’Israele su una promessa biblica di ritorno alla terra dei padri: non è solo geografia, è teologia politica.
L’estremismo religioso, incarnato da frange ultraortodosse e movimenti come i coloni radicali di Hilltop Youth, non combatte solo per la sicurezza, ma per la sacralità della terra. Questo rende ogni compromesso un sacrilegio, ogni negoziato una rinuncia al mandato divino.
Il cristianesimo, spesso percepito come esterno al conflitto, è in realtà coinvolto nella storia profonda del fronte orientale.

Le Crociate, che tra XI e XIII secolo portarono Eserciti cristiani in Terra Santa, rappresentano l’archetipo della giustificazione bellica in nome della fede.
Furono le prime guerre “umanitarie”, secondo la retorica medievale: spedizioni per “liberare” i luoghi santi, ma che nella realtà intrecciavano interessi papali, mire dinastiche e controllo delle rotte commerciali.
L’eco crociato risuona ancora oggi nella propaganda jihadista, che definisce l’Occidente crociato (salibiyyin) e lo contrappone all’Umma musulmana come eterno nemico esistenziale.
Nel XXI secolo, quella memoria religiosa si è trasformata in carburante ideologico. La guerra non è solo per la terra, ma per il senso che quella terra incarna. Moschee, sinagoghe, monasteri diventano obiettivi strategici e simbolici, perché colpirli significa intaccare l’identità dell’avversario.
Le operazioni militari devono quindi tener conto del diritto internazionale umanitario anche nella protezione del patrimonio religioso e culturale: la Convenzione dell’Aia del 1954 e il secondo Protocollo del 1999 lo ribadiscono con forza.
In tale contesto, il principio di distinzione si estende anche al sacro. Colpire un minareto, un sito archeologico, una chiesa millenaria equivale a distruggere non solo la pietra, ma la memoria collettiva.
In Siria, l’ISIS ha distrutto Palmira come gesto di annichilimento identitario. In Iraq, le tombe dei profeti sono divenute trincee simboliche.
In Palestina, il Monte del Tempio/Spianata delle Moschee è epicentro fisico e teologico di una tensione permanente.

Riconoscere la matrice religiosa dei conflitti non significa legittimarne l’uso bellico.
Al contrario: vuol dire comprenderne la profondità per affrontarne le derive. La religione può essere arma o ponte, dogma o dialogo. La geopolitica del sacro, se non compresa, rischia di rendere ogni trattato un palliativo, ogni tregua un’illusione. Ma davvero si combatte per la religione?
O piuttosto la religione è il velo sacro dietro cui si cela un’inestinguibile fame di potere, appartenenza, dominio culturale?
L’errore più comune dello sguardo occidentale è considerare l’odio settario un’anomalia arcaica.
Al contrario, è proprio l’innesto moderno dello Stato nazione su un mosaico etnico e confessionale a rendere esplosive le fratture.
La Siria ne è esempio paradigmatico: un Paese disegnato a tavolino, dove Alawiti, Sunniti, Cristiani e Curdi venivano tenuti insieme da autoritarismo e repressione.

Quando, nel 2011, la diga è crollata, l’esplosione ha separato popoli secondo linee identitarie.
Il regime di Assad, l’insurrezione armata, l’ingresso di attori esterni, il jihadismo: ogni elemento ha contribuito a disintegrare lo Stato.
L’impiego di termini operativi come “postazione di fuoco”, “linea di arretramento”, “zona no-fire”, traduce nella prassi militare fratture che sono prima di tutto sociali e culturali.
Il teatro israelo-palestinese è emblematico di questo intreccio.
Un conflitto che dura da oltre 75 anni, dove la questione nazionale si fonde con la narrativa religiosa e il trauma storico.
Israele nasce come rifugio post-Olocausto e si trasforma in fortezza.
I palestinesi sopravvivono tra occupazione e diaspora.
La dottrina del “mowing the grass” – attacchi periodici per degradare le capacità nemiche senza un disimpegno definitivo – si è ormai estesa ben oltre Gaza: Libano, Siria, Yemen ne sono oggi campi indiretti di applicazione.
Hamas si configura come milizia ma anche come progetto teocratico in movimento; dall’altro lato, l’estremismo ebraico rappresenta una simmetria speculare.
Il Principio di distinzione (Protocollo aggiuntivo I del 1977, art. 48) impone la separazione tra civili e obiettivi militari, vietando gli attacchi indiscriminati. Tuttavia, la prassi spesso smentisce la norma.
In Yemen, il conflitto tra i ribelli Houthi (sciiti zaydi) e il governo sunnita, sostenuto dalla coalizione saudita, rappresenta una delle più feroci guerre per procura tra Iran e Arabia Saudita.

Le operazioni comprendono assedi, bombardamenti aerei, guerre navali nel Mar Rosso, attacchi contro infrastrutture civili.
Termini come “capacità di interdizione marittima”, “guerra asimmetrica” e “conflitto irregolare” (irregular warfare) descrivono strategie finalizzate a logorare la proiezione di potere dell’avversario.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) denuncia sistematiche violazioni: attacchi sproporzionati, blocchi umanitari, colpi deliberati su centri urbani, ospedali, scuole, mercati, acquedotti.
Il Libano sintetizza l’instabilità del mosaico settario. Il suo sistema politico è rigidamente suddiviso in taifas confessionali, dove Hezbollah opera come uno Stato nello Stato: garante della comunità sciita e pedina strategica dell’Iran. Il lessico operativo include “base logistica”, “postazione d’artiglieria”, “fire control centre”, “gestione dell’area operativa”.
Ogni attore punta alla deterrenza: missili a lungo raggio, tunnel offensivi, capacità anti-aeree. Israele amplia la dottrina della “long campaign”, con azioni limitate e mirate in Libano per scoraggiare Hezbollah e disarticolare l’“asse della resistenza” guidato da Teheran.
In Iraq, la caduta di Saddam Hussein ha spalancato le rivalità etno-confessionali tra sciiti, sunniti e curdi.

L’emergere dell’ISIS è l’effetto congiunto del fallimento delle operazioni di controinsurrezione (COIN) e della degenerazione del conflitto irregolare.
La terminologia include “clear hold build operations”, “human intelligence (HUMINT)”, “rules of engagement (RoE)”, tattiche urbane (CQC – close quarter combat) e il fondamentale principio di proporzionalità: ogni attacco deve evitare perdite civili eccessive rispetto al vantaggio militare previsto.
Il diritto internazionale umanitario trova il suo fondamento nelle Quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e nei Protocolli Aggiuntivi del 1977 (Primo per conflitti internazionali,
Secondo per quelli non internazionali), oltre alla Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali. L’articolo 3 comune impone standard minimi anche nei conflitti interni: trattamento umano, divieto di torture, rispetto per i hors de combat.
Anche le missioni ONU devono operare secondo queste regole, sancite negli Status of Forces Agreements (SOFA).
La dottrina statunitense, consolidata nel Manual on the Law of War (2023), integra diritto consuetudinario e convenzionale nelle regole d’ingaggio, affrontando questioni centrali come proporzionalità, assedio, protezione dei civili e coordinamento umanitario.
Ma, come sempre, la pratica spesso disattende il principio.
Nella Striscia di Gaza, esperti delle Nazioni Unite parlano apertamente di rischio di “annientamento” della popolazione civile: bombardamenti indiscriminati, attacchi alle infrastrutture umanitarie, ostacoli sistemici all’accesso ad aiuti medici e alimentari.

Similmente, in Siria, Yemen e Libano, la distinzione tra civili e combattenti viene costantemente elusa, alimentando spirali di radicalizzazione e vendetta, e seminando instabilità per le generazioni a venire.
Occorre tornare a guardare l’essere umano.
Il ragazzo siriano che abbraccia sua madre sotto le macerie. La donna yazida sopravvissuta alla schiavitù. Il soldato israeliano con negli occhi il peso dell’orrore.
Il bambino palestinese che stringe un pallone bucato tra le rovine. Il dovere è ascoltarli, anche quando le bombe sovrastano le parole.
Per l’analista, il Medio Oriente è uno scacchiere; per il generale, una questione di logistica; per il diplomatico, un rompicapo irrisolto.
Ma ogni strategia che ignora l’elemento umano è destinata a fallire. Serve intelligenza strategica, rispetto delle norme e una diplomazia paziente, che riconosca le identità, rispetti il diritto internazionale umanitario e sappia opporsi con fermezza al fondamentalismo e al cinismo.
Forse non esiste una pace definitiva.
Forse non esiste una giustizia perfetta. Ma ogni bambino nato a Mosul, Gaza, Teheran o Tel Aviv ha diritto a un futuro che non sappia di polvere da sparo. Raccontare, analizzare, denunciare questi conflitti non è esercizio di retorica, è un dovere etico.
Come insegnava Oriana Fallaci: credere nella dignità dell’essere umano è il primo, irrinunciabile passo verso la pace.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
©RIPRODUZIONE RISERVATA