Di Cristina Di Silvio*
BEIRUT. La capitale libanese si prepara a commemorare il quinto anniversario dell’esplosione al porto.
Era il 4 agosto 2020, alle ore 18.08, quando il cielo della capitale libanese si squarciò in una nube bianca seguita da una colonna di fumo rosso: l’onda d’urto, tra le dieci esplosioni non nucleari più potenti mai registrate, devastò tutto per chilometri.
Morirono almeno 246 persone; oltre 7 mila rimasero ferite, molte in modo permanente, con mutilazioni, cecità e deturpazioni.
Più di 300 mila persone furono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni, molte delle quali rase al suolo.

Una città intera – il cuore del Libano – implose in pochi secondi, mentre il mondo osservava attonito e impotente. Ma ciò che inizialmente fu descritto come un disastro accidentale si rivelò rapidamente l’espressione tangibile di una patologia sistemica che affligge lo Stato libanese da decenni: l’impunità.
A cinque anni di distanza, Beirut è ancora in ginocchio.
Non per mancanza di resilienza: quartieri come Mar Mikhael e Gemmayzeh hanno dimostrato una straordinaria capacità di ricostruzione sociale e civile. A rimanere sepolta sotto le macerie, tuttavia, è stata la giustizia.
L’inchiesta sull’esplosione è ostaggio di un sistema istituzionale refrattario alla trasparenza e alla responsabilità.
Le autorità politiche, giudiziarie e militari hanno reagito all’indagine non con collaborazione, ma con ostruzionismo, silenzi e ritorsioni.
I principali imputati non sono criminali comuni, bensì ex ministri, alti funzionari militari, ufficiali doganali e membri delle forze di sicurezza: soggetti che erano a conoscenza del pericolo rappresentato dalle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate nel magazzino 12 del porto sin dal 2013, a pochi metri dal centro della capitale.
Il primo giudice incaricato delle indagini, Fadi Sawan, fu rimosso nel 2021 dopo aver incriminato due ex ministri legati al movimento sciita Amal, segnalando chiaramente che certi equilibri di potere non possono essere toccati.
Il suo successore, Tarek Bitar, stimato giurista, ha tentato di riattivare l’indagine nel gennaio 2025, dopo due anni di blocco. Ma non appena ha convocato alte cariche, tra cui il procuratore generale Ghassan Oweidat, ha subito una violenta controffensiva istituzionale.
Oweidat non solo ha rigettato l’autorità di Bitar, ma ha ordinato la scarcerazione di tutti i detenuti collegati all’inchiesta e ha persino denunciato il giudice.
Il conflitto di interessi è palese e configura una grave violazione dei principi di indipendenza della magistratura, in contrasto con quanto previsto dall’Articolo 14 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR), ratificato dal Libano nel 1972.
Nel frattempo, i familiari delle vittime – organizzati in comitati civici – continuano a lottare per la verità. Hanno trasformato il lutto in attivismo, ma ogni tentativo di ottenere giustizia si scontra con un sistema impermeabile. Nel maggio 2025, una delegazione giudiziaria francese ha consegnato alle autorità libanesi un rapporto investigativo indipendente, contenente analisi del suolo, immagini satellitari e testimonianze. Tuttavia, anche questo documento rischia di rimanere lettera morta, travolto dal pantano dell’inerzia politica.
La comunità internazionale, sebbene solidale, appare impotente.
L’Unione Europea ha espresso sostegno alle famiglie delle vittime e ha sollecitato azioni concrete per perseguire i responsabili.
A marzo scorso, Human Rights Watch e la Commissione Internazionale dei Giuristi hanno indirizzato una lettera formale al Primo Ministro libanese, chiedendo l’effettiva applicazione della legge sull’indipendenza della magistratura, approvata nel 2023 ma sistematicamente disattesa.

Tale richiesta è conforme ai principi fondamentali dell’ONU sull’Indipendenza della Magistratura (1985), i quali stabiliscono che il potere giudiziario deve essere libero da pressioni esterne, interferenze e intimidazioni. Le commemorazioni del 4 agosto 2025 riempiranno le strade del centro, dove famiglie, attivisti e sopravvissuti si raduneranno attorno al luogo dell’esplosione.
I silos di grano – parzialmente crollati ma ancora visibili – sono oggi al centro di un acceso dibattito: alcuni vorrebbero demolirli, altri li considerano un monumento necessario alla memoria collettiva.
I comitati dei familiari hanno formalmente richiesto all’UNESCO la loro designazione come patrimonio memoriale, in linea con l’articolo 1 della Convenzione UNESCO del 1972, che prevede la protezione dei siti di rilevanza storica e culturale.
Tuttavia, le autorità locali sembrano preferire la rimozione, quasi a voler cancellare ogni traccia fisica della tragedia.
Cinque anni dopo, Beirut non ha dimenticato. Ma ciò che inquieta non è il ricordo: è il presente.
Nessuno ha pagato, nessuno ha confessato, nessuno ha spiegato.
Il Libano continua a galleggiare in un vuoto fatto di paralisi politica, crisi economica e una diplomazia internazionale priva di strumenti efficaci.
La commemorazione di quest’anno si profila come l’ennesimo atto di resistenza civile, in un Paese dove la giustizia non è soltanto assente: è sotto assedio.
E mentre le madri dei caduti sollevano in piazza le foto dei loro figli, scolorite dal sole e dalla polvere, i loro sguardi silenziosi gridano più di mille discorsi.
Perché il tempo, da solo, non guarisce nulla: la guarigione comincia solo dalla verità.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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