Di Giuseppe Gagliano*
CARACAS. L’offerta è arrivata in silenzio, tra canali diplomatici informali e incontri riservati.

ùNicolás Maduro, consapevole della fragilità del suo regime e della crescente pressione internazionale, ha tentato una mossa estrema: concedere a Washington un accesso privilegiato alle immense risorse petrolifere e minerarie del Venezuela, nella speranza di disinnescare la minaccia di un’azione militare statunitense e di ridurre le sanzioni.
Secondo quanto riportato dal New York Times, gli emissari del presidente venezuelano hanno trattato per mesi con interlocutori americani, offrendo condizioni senza precedenti pur di evitare l’isolamento totale.
Una proposta che riscriveva le alleanze energetiche
Il cuore della proposta di Maduro era semplice ma dirompente: concedere alle compagnie americane quote di controllo nei principali progetti petroliferi, del gas e dell’oro, oggi in gran parte legati a partner russi, cinesi e iraniani.
Il Venezuela si impegnava inoltre a riorientare le esportazioni di greggio – che negli ultimi anni hanno preso la via di Pechino e Mosca – verso gli Stati Uniti.
In altre parole, Caracas era pronta a rompere con i suoi storici alleati energetici per ottenere una normalizzazione con Washington.
Non si trattava solo di aprire i giacimenti, ma di concedere alle società statunitensi una posizione dominante nel settore strategico che tiene in vita il regime: l’industria petrolifera.
Un gesto che avrebbe rappresentato una svolta epocale nella geopolitica sudamericana, restituendo agli Stati Uniti una leva decisiva su uno dei Paesi con le più grandi riserve di greggio al mondo.
La risposta della Casa Bianca: un “no” calcolato
Nonostante l’ampiezza delle concessioni, l’Amministrazione americana ha scelto di respingere l’offerta.

Secondo quanto trapelato, la decisione è stata presa dopo un’attenta valutazione strategica: accettare la proposta avrebbe significato legittimare un regime ritenuto illegittimo e autoritario, indebolendo l’opposizione interna e compromettendo il messaggio politico di Washington in America Latina.
Per la Casa Bianca, la pressione militare e diplomatica esercitata su Maduro aveva un obiettivo preciso: non strappare concessioni economiche, ma favorire un cambio politico.
Ecco perché, alla fine, gli emissari americani hanno interrotto i colloqui, segnando la fine di mesi di negoziati segreti che avevano sollevato non poche tensioni anche tra i partner occidentali.
L’opposizione si muove: il piano Machado
Proprio mentre Maduro cercava un accordo sotterraneo con Washington, l’opposizione venezuelana si muoveva su un fronte parallelo.

María Corina Machado, leader del fronte democratico e recentemente insignita del Premio Nobel per la Pace, ha presentato agli Stati Uniti un piano alternativo.
L’idea era chiara: offrire prospettive economiche più ampie e stabili a lungo termine nel quadro di una transizione democratica.
Il piano Machado prevede una riforma radicale del settore energetico, l’apertura agli investimenti stranieri, la ricostruzione delle infrastrutture e un quadro normativo che garantisca stabilità e legalità.
Per Washington, questa prospettiva è apparsa più coerente con la sua strategia regionale: sostenere un cambio politico che apra il mercato energetico venezuelano in condizioni trasparenti e prevedibili, piuttosto che legarsi a un regime sotto sanzioni.
La posta in gioco: petrolio e influenza geopolitica
Il Venezuela possiede le più grandi riserve di petrolio al mondo e giacimenti minerari strategici.
Per anni queste ricchezze sono state gestite attraverso alleanze con Mosca, Pechino e Teheran, che hanno garantito ossigeno economico a Caracas in cambio di accesso privilegiato alle risorse.
L’offerta di Maduro, quindi, non era solo economica: era un tentativo di riposizionamento geopolitico, di rompere con i vecchi alleati e riaprire un canale con Washington per evitare il collasso.
Per l’Amministrazione statunitense, tuttavia, accettare l’offerta avrebbe significato alimentare un regime percepito come instabile, corrotto e poco affidabile, oltre a inviare un segnale ambiguo ai partner della regione.
Meglio attendere e scommettere su una futura transizione politica piuttosto che ricucire con un presidente che ha costruito la propria sopravvivenza proprio sulla sfida agli Stati Uniti.
Un regime più fragile
Il fallimento di questa trattativa segreta mostra quanto Maduro sia oggi più debole di quanto appaia. Le difficoltà economiche, l’isolamento diplomatico e le sanzioni pesano sul Paese.
L’inflazione resta fuori controllo, le esportazioni energetiche sono limitate e l’apparato statale è sempre più dipendente da pochi partner esterni. In questo scenario, la proposta fatta agli Stati Uniti somiglia più a una manovra di sopravvivenza che a un gesto di forza.
Ma la risposta negativa della Casa Bianca accentua questa fragilità.
Senza un allentamento delle sanzioni, senza nuovi mercati e senza la possibilità di attrarre capitali occidentali, il regime venezuelano resta intrappolato in un vicolo cieco economico e diplomatico.
Washington sceglie la pressione
La decisione americana di interrompere i colloqui è in linea con una strategia di lungo periodo: aumentare la pressione fino a costringere il regime a concessioni politiche reali o a favorire un cambio di leadership.
Il piano Machado, con la sua promessa di una transizione ordinata e un’apertura economica controllata, offre a Washington un’alternativa più coerente con i suoi interessi strategici nella regione.
La vicenda rivela anche il ritorno della logica della “guerra fredda energetica” nel continente americano.
Il petrolio venezuelano non è solo una risorsa: è una leva di potere.
Maduro ha tentato di usarla per comprare tempo. Ma gli Stati Uniti, questa volta, hanno preferito non pagare.
* Presidente Cestudec (Centro Studi Strategici)
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