Di Amr Helmy*
IL CAIRO. Durante quella che i media occidentali hanno celebrato come “Primavera Araba”, molti attivisti e analisti si sono concentrati sul ruolo dei social media nel promuovere presunte rivoluzioni democratiche nei nostri Paesi.
Tuttavia, pochi hanno avuto il coraggio di analizzare l’altro lato della medaglia: l’uso sistematico e calcolato di queste piattaforme come strumenti di assassinio morale (character assassination), orchestrato attraverso campagne di discredito e diffamazione contro figure politiche, istituzionali e culturali tacciate di corruzione, tradimento, debolezza o autoritarismo.

Dietro il velo trasparente di slogan su libertà, diritti e riforme, si celavano progetti di destabilizzazione, volti a sovvertire regimi e a disintegrare le strutture statali nel nome di un’“ingegneria del caos” che ha portato più distruzione che progresso.
Oggi, in un paradosso storico, quegli stessi strumenti digitali stanno vivendo una trasformazione radicale.
Sono diventati l’arma principale nelle mani delle vittime dell’ingiustizia e dell’occupazione israeliana.
I social media non sono più meri strumenti di comunicazione: si sono convertiti in finestre sul crimine, capaci di documentare in tempo reale le atrocità commesse da Israele contro il popolo palestinese a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.
Attraverso piattaforme come TikTok, Instagram, Facebook e Twitter (oggi X), il mondo è testimone diretto della pulizia etnica, dei bombardamenti sui civili, della fame utilizzata come arma, dell’assassinio di bambini, medici, giornalisti e religiosi, e della distruzione sistematica di scuole, ospedali e luoghi sacri.
Una realtà che i media tradizionali, per lungo tempo allineati a narrazioni occidentali costruite sull’immagine mitica di Israele quale “unica democrazia del Medio Oriente”, non possono più ignorare né censurare.
I governi occidentali, posti di fronte all’immediatezza e all’evidenza delle immagini che circolano online, si trovano oggi sotto la pressione dell’opinione pubblica, che reagisce, denuncia e si indigna.
In molti Paesi europei, questo ha già prodotto un cambiamento tangibile: dalla sospensione delle forniture militari a Israele, alla proposta di riconoscimento dello Stato palestinese, fino alla crescente revisione delle relazioni strategiche con Tel Aviv.
Tutto questo è stato possibile perché il monopolio della narrazione è stato spezzato.

Il cittadino comune palestinese – attraverso il proprio smartphone – ha assunto il ruolo di reporter, testimone e attivista per i diritti umani, sovvertendo la gerarchia informativa tradizionale.
La verità non è più ostaggio dei calcoli geopolitici. Essa scorre in rete, con immagini, grida e volti reali.
Non sorprende, dunque, che Tel Aviv e i suoi alleati stiano tentando di reprimere anche questa nuova forma di resistenza. Dalla censura digitale, alle pressioni sulle piattaforme, fino alla criminalizzazione dell’attivismo online, si cerca di porre un freno alla crescente internazionalizzazione della coscienza collettiva che ha preso forma proprio grazie ai social.
Ma ciò che è ormai evidente – anche a chi per decenni ha finto di non vedere – è che Israele ha perso il controllo sulla sua narrazione pubblica.
Le contraddizioni tra la sua auto-rappresentazione come “Stato democratico” e la realtà del suo comportamento coloniale, razzista e violento sono diventate lampanti.
L’occupazione non è più un concetto astratto. È visibile. È documentata. È giudicata.
I social media hanno anche permesso di portare alla luce un estremismo crescente nella società israeliana, che oggi non si limita più alla discriminazione anti-araba o anti-musulmana, ma si estende in maniera preoccupante alla religione cristiana e ai suoi luoghi sacri.
Le aggressioni alle chiese nei territori occupati, le limitazioni imposte ai sacerdoti, gli insulti contro i simboli cristiani sono manifestazioni di una mentalità settaria e suprematista, pericolosa per tutta la regione.
Questa escalation, visibile ora come mai prima, richiede una presa di posizione chiara da parte della comunità internazionale. Il tempo del silenzio e della complicità è finito.
I popoli del mondo – grazie a un telefono, una connessione e il coraggio della verità – stanno finalmente riscrivendo la storia.
Non con le armi, ma con le immagini. Non con i proclami, ma con la documentazione quotidiana di un genocidio che nessuno potrà più negare.
Oggi più che mai, la responsabilità morale dei Governi e delle istituzioni occidentali è messa alla prova.
Non saranno più giudicati solo per ciò che fanno, ma anche per ciò che non hanno avuto il coraggio di fermare.
*L’autore è stato Ambasciatore d’Egitto in Italia dal 2013 al 2017. Attualmente è membro del Senato egiziano e autore di numerosi articoli a carattere politico, economico e culturale.
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