La politica di penetrazione cinese nel Medio Oriente

Di Pierpaolo Piras

Roma. Da più parti viene notato un cambiamento del modello principale di politica estera USA nei confronti dell’area geostrategica medio orientale, la quale , secondo alcuni, non rivestirebbe più la massima priorità di Washington.

Non è un caso che gli Stati Uniti hanno ridotto sensibilmente i propri contingenti militari in Iraq, e lo stesso Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti, in alcune sue dichiarazioni all’inizio del suo mandato, ha specificato che le attenzioni della sua presidenza si sarebbero concentrate su un minore numero di obiettivi in quel teatro così conflittuale del Medio Oriente.

A fronte di tale posizione politica , gli analisti e editorialisti hanno immediatamente avvertito la concreta possibilità per la Cina Popolare di coprire il posto lasciato vacante dagli USA in una parte del Mondo dove Washington è stata storicamente dominante.

La necessaria premessa a tali convincimenti ed azioni internazionali sta il duraturo impegno degli Stati Uniti di contrastare il potere militare, il peso economico e l’ideologia della Cina per non essere superati come prima superpotenza globale.

Sull’altro versante si cita l’aumento degli investimenti cinesi nell’area, i suoi accordi commerciali bilaterali con le potenze regionali, la sua base militare a Gibuti e i legami sempre più stretti di Pechino con l’Iran, come prova di nuove e pericolose minacce alla sicurezza degli Stati Uniti.

Cartina del Medio Oriente

Gibuti

Dal 2016, a Gibuti è stata costruita una base navale militare cinese con circa 300 militari come forza operativa e di presidio con un costo stimato di 600 milioni di dollari. Il governo cinese si è impegnato a pagare al governo di Gibuti circa 20 milioni di dollari all’anno per dieci anni, con un’opzione per un ulteriore periodo di dieci anni.

In realtà, la crescente presenza di Pechino in Medio Oriente sembra motivata meno dal desiderio di egemonia piuttosto che dalle preoccupazioni economiche (approvvigionamento di combustibili fossili, specie il petrolio) e di politica interna (persecuzione della minoranza mussulmana della Cina occidentale, gli Uiguri).

I legami politici di Pechino

Negli ultimi vent’anni, Pechino ha dedicato molto tempo e risorse alla costruzione di solidi legami diplomatici e commerciali con tutti i principali attori del Medio Oriente.

Pochi altri paesi possono vantare così tante e buone relazioni con l’Iran, Israele, Arabia Saudita e gli Stati del Golfo, prefigurando virtuosamente nella strategia regionale di Pechino.

Quando Xi Jinping ha fatto il suo primo viaggio nella regione, come Presidente della Repubblica Popolare cinese, nel gennaio 2016, si è fermato per la prima volta in Arabia Saudita, dove ha firmato un accordo di partenariato strategico globale tra Pechino e Riad.

Poi è volato direttamente a Teheran dove ha stipulato gli stessi accordi con il governo dell’Iran.

La successiva visita del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, nella regione ha segnato la continuazione di tale approccio amichevole verso tutti i protagonisti politici di questa importante area geopolitica.

Durante le sue visite, Wang Yi ha culminato i suoi colloqui con i temi ben noti della politica estera cinese, basata sui “progetti win-win” (nei quali i vantaggi e profitti sono positivi per entrambi i contraenti), sul rispetto reciproco e sul dialogo in Medio Oriente.

La diffidenza americana

Una varietà di esperti di politica estera, editoriali nei principali giornali e importanti membri del Congresso degli Stati Uniti, deducono che la Cina nutre grandi ambizioni nella regione mediorientale.

La posizione cinese ha fatto del Medio Oriente la maggiore fonte logistica sia come fornitore di carburante che come “potenziale” punto strategico di strozzatura del commercio globale. L’area è inoltre parte fondamentale della Belt and Road Initiative (BRI) , la cosiddetta “Via della Seta”.

In ogni caso, secondo tale strategia, buona parte della governance commerciale globale verrebbe orientata più lontano dagli Stati Uniti.

La politica estera cinese

Negli ultimi anni la Cina ha chiaramente perseguito una politica estera sempre più aggressiva.

Dopo la crisi finanziaria globale del 2008 e l’assunzione del potere come Segretario del Partito Comunista cinese da parte di Xi Jinping nel 2012, la leadership cinese ha iniziato ad allontanarsi lentamente dai passati principi di politica estera promossi dall’ex leader supremo, Deng Xiaoping, secondo il quale il Paese avrebbe dovuto “nascondere le sue capacità e aspettare il suo tempo”.

La Cina ora è diventata più intraprendente e aggressiva in Asia orientale e oltre: ha ignorato le sentenze emesse da un tribunale internazionale sulle sue azioni ed affermazioni di segno egemonico nel Mar Cinese Meridionale, ha violato i protocolli di navigazione aerea nello stretto di Taiwan, ha posto dazi sulle merci dell’ Australia e Corea del Sud in risposta ai rilievi pronunciati da Canberra sulle origini del nuovo coronavirus e il dispiegamento da parte di Seoul di un potente sistema antimissile.

È un errore, tuttavia, fare ipotesi sull’approccio di Pechino al Medio Oriente basato sul suo comportamento assertivo in Asia orientale e altrove.

Sebbene la leadership cinese non nasconda la volontà di superare gli Stati Uniti in molti settori industriali e finanziari, ci sono ancora prove ambigue che tali sforzi si estendano così largamente anche al Medio Oriente.

Le disavventure militari statunitensi in Afghanistan, Iraq e altrove, hanno dato, ad alcune cancellerie, l’impressione che la politica estera di Washington abbia ridotto sensibilmente la sua influenza globale, ponendo quest’ultima sul piano di un declino. Pechino non ha alcun desiderio di seguirne l’esempio.

Molti economisti danno una lettura differente. Essi sostengono che a guidare la presenza cinese in Medio Oriente sia il rapido sviluppo economico a due cifre del paese, avvenuto negli ultimi 20 anni.

La rilevanza strategica del petrolio

Tra il 1990 e il 2009, le importazioni cinesi di petrolio mediorientale sono aumentate di dieci volte.

Nel 2019-2020, i paesi del Golfo persico hanno fornito circa il 40% delle importazioni cinesi di petrolio, di cui il 16% proveniva solo dall’Arabia Saudita, rendendo questo paese il più grande fornitore cinese di greggio.

L’Iraq, dove gli Stati Uniti hanno speso trilioni di dollari per il cambiamento di regime, è tra i primi cinque fornitori di petrolio in Cina; L’Iran è ottavo.

Da questi dati emerge quanto siano fondamentali queste risorse petrolifere per lo sviluppo continuo e consistente della Cina. Nonché, per estensione, per la sua influenza globale.

One-belt-one-road.

Le ragioni economiche

Le relazioni economiche della Cina con il Medio Oriente non si basano solo sull’approvvigionamento delle risorse energetiche.

Il Paese sta espandendo i suoi legami geopolitici anche attraverso la sua Belt and Road Initiative (BRI – Via della Seta) , grazie alla quale è ora il più cospicuo investitore finanziario della regione e il più grande partner commerciale di ben undici paesi del Medio Oriente.

Vale la pena ricordare che il Medio Oriente comprende una vastissima area con strutture poste lungo punti di strozzatura geografica, quindi vitali, che collegano la regione mediorientale alla Cina e al resto del mondo: il Golfo Persico, il Golfo dell’Oman, il Mar Rosso, lo Stretto di Bab el Mandeb e il Canale di Suez.

Il successo della BRI dipende dal mantenimento di queste arterie aperte nei due sensi.

Ha finanziato la costruzione di porti e parchi industriali in Egitto, Oman, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Gibuti. Valgano come esempio gli onerosissimi effetti economici globali generati dallo spiaggiamento della nave portacontainer Ever Given nel Canale di Suez, nel 2021.

Il partenariato con l’Iran

All’inizio del 2021, Pechino ha raggiunto un accordo di “partenariato strategico” con Teheran.

L’accordo ha la durata di 25 anni e include investimenti cinesi di un totale di 400 miliardi di dollari per forniture petrolifere a prezzo fortemente scontato.

Lo stesso accordo delinea anche una maggiore cooperazione in materia di sicurezza. Quest’ultimo protocollo ha suscitato qualche preoccupato commento da parte di Washington.

A molti analisti è sembrato che Pechino stesse cercando di ridurre l’effetto delle sanzioni statunitensi intese a fare pressione su Teheran affinché abbandonasse sia la sua politica estera aggressiva che lo sviluppo del settore nucleare.

Allo stesso tempo, tuttavia, questo partenariato rappresenta un comprensibile riflesso degli interessi economici e diplomatici cinesi.

Dato lo status dell’Iran come uno dei principali fornitori di petrolio della Cina, Pechino ha interesse a impedire il collasso del regime iraniano, sotto il peso della sanzioni economiche americane.

Gli affari interni cinesi

Ma le politiche cinesi non riguardano solo il petrolio.

Sotto Xi Jinping, la Cina ha utilizzato con successo una combinazione di diplomazia, nuovi e cospicui investimenti e diversificazione del mercato per soddisfare la sua crescente domanda interna di combustibili fossili.

Il petrolio greggio dagli Stati Uniti, il gas naturale dall’Australia e l’estrazione interna del carbone integrano le crescenti importazioni cinesi dal Medio Oriente.

Gli investimenti interni in crescita nelle energie rinnovabili compenseranno inevitabilmente anche parte della dipendenza del paese dagli idrocarburi.

Quindi, piuttosto che vedere il Medio Oriente come unica fonte di energia, la Cina vede anche i suoi legami lì come una polizza assicurativa contro una minaccia interna completamente distinta: un movimento separatista tra gli uiguri, prevalentemente musulmani, nella regione autonoma dello Xinjiang.

Pechino ha iniziato la sua brutale campagna di repressione contro la popolazione uigura sulla scia degli attacchi terroristici del settembre 2001 negli Stati Uniti e ha intensificato questa campagna a seguito di una serie di attacchi condotti dai separatisti uiguri sia in Cina che nei paesi vicini nel 2014 e nel 2015.

Xi ha dichiarato nel 2019 che “chiunque tenti di dividere qualsiasi regione dalla Cina sarà schiacciato con corpo e ossa in frantumi”.

Sia l’amministrazione Trump che Biden hanno concluso che la dura repressione degli uiguri da parte di Pechino – tra cui prigionia arbitraria, sterilizzazione forzata, stupro, tortura, lavoro forzato e restrizioni draconiane alla libertà di religione – costituiscono un crimine contro l’umanità e il genocidio.

I leader cinesi sperano da tempo che i legami più stretti con i regimi mediorientali e dell’Asia centrale, possano impedire il sostegno esterno di questi paesi ai separatisti uiguri, e soffocando nel contempo l’attività delle reti islamiche transfrontaliere.

Nonostante l’attenzione di Washington, la sensibilizzazione di Pechino verso il Medio Oriente sembra ottenere qualche risultato.

Attraverso la diplomazia regolare, l’ingente acquisto di idrocarburi e investimenti su larga scala, Pechino è riuscita a dissuadere i governi e le organizzazioni religiose nei paesi a maggioranza musulmana dal fornire supporto materiale e retorico al popolo uiguro.

Risultato: molti di questi governi e organizzazioni hanno liquidato le repressioni adottate da Pechino come una questione puramente interna.

Altri hanno persino collaborato con la Cina contro gli attivisti uiguri. Funzionari in Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi Uniti hanno tutti preso di mira e presumibilmente deportato uiguri per volere di Pechino.

Gli Stati Uniti in guardia

Il fatto che le politiche cinesi in Medio Oriente derivino principalmente da considerazioni economiche e politiche interne non significa che Washington sia del tutto indifferente alla condotta cinese nella regione.

Gli Stati Uniti e la Cina hanno alcuni interessi diversi in Medio Oriente, ma la conclusione che Pechino voglia soppiantare Washington nella regione non è ancora tramontata nelle stanze del Dipartimento di Stato.

Tutti i protagonisti, USA in primis, con interessi geopolitici in Medio Oriente perseguiranno i loro obiettivi indipendentemente da Washington o da Pechino.

In tali circostanze, è del tutto improbabile che i cinesi cerchino un conflitto, preferendo costruire relazioni con una serie di paesi della regione al fine di garantire il loro libero accesso al petrolio e ai mercati.

Nella misura in cui i leaders mediorientale resteranno ben disposti verso Washington, gli Stati Uniti manterranno il primato in questa competizione strategica.

Se, però, si configurasse un ridimensionamento degli Stati Uniti e si profilasse secondariamente una sorta di ritiro americano dalla regione, i vari leader locali potrebbero iniziare ad allontanarsi dai legami con Washington.

Nel qual caso la Cina finirebbe per diventare la potenza dominante in Medio Oriente nonostante, oggi, non abbia una chiara intenzione di farlo.

 

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