Di Giuseppe Paccione*
ROMA (nostro servizio particolare). L’Italia sta sopportando, a fatica, il continuo arrivo di navi ONG che recuperano, nelle acque internazionali, persone che vengono lasciate spesso in balia delle onde su imbarcazioni fatiscenti e pericolose, spesso con la complicità dei trafficanti di esseri umani via mare.
Il Mediterraneo è diventato la traversata di mare più pericolosa, ma anche fatale con un bilancio di vittime abbastanza elevato, secondo i dati presentati di recente dall’Agenzia delle Nazioni per i rifugiati.
Sappiamo bene che l’area dell’immenso bacino mediterraneo continua a mietere molte vittime, per cui credo che sia fondamentale affrontare i fattori che potrebbero essere di ostacolo al soccorso di coloro che, per varie ragioni, decidano di attraversare tale ampio tratto di mare quando la loro vita è davvero messa a repentaglio.
I comandanti responsabili delle proprie navi, ai sensi del diritto internazionale, sono obbligati a prestare assistenza a tali individui che rischiano la vita in mare.
Ostacolare i comandanti dei bastimenti al loro dovere di salvare vite umane in pericolo spesso comporta la tragica morte di tante persone che emigrano verso l’Europa mentre attraversano le acque internazionali del Mediterraneo.
Il dovere di fornire assistenza agli individui in pericolo da parte dei comandanti costituisce l’effetto giuridico di una remota tradizione morale e prassi generale dei marittimi, ossia di un dovere morale che veniva elevato a un obbligo giuridico, che è stata inserita nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM) o Convenzione di Montegobay del 1982, in quella per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) e in quella sulla ricerca e soccorso (SAR).
La CNUDM obbliga ciascuno Stato di imporre al comandante di una nave, che possegga la sua nazionalità, di assistere qualsiasi persona che si trovi in mare in una particolare circostanza di pericolo, di procedere celermente al soccorso degli individui che rischiano di perdere la vita.
La Convenzione SOLAS sancisce che il comandante di una nave deve procedere speditamente all’intervento di salvare le persone che chiedono aiuto perché la loro vita è messa a repentaglio, dove necessita minimizzare il tempo che gli individui passano in mare.
L’obbligo di fornire assistenza alle persone in pericolo sta assumendo sempre più un significato importante nella sfera delle rotte marittime e dei viaggi della speranza che evidenziano molti pericoli e rischi per la vita degli individui.
Il transito ha cagionato la perdita della vita di molte persone che hanno intrapreso la rotta marittima per raggiungere il continente europeo. Sappiamo bene che tanti di questi individui, che migrano, mirano a trovare una vita che sia sufficientemente dignitosa e di opportunità economiche, altri fuggono a causa di guerre, violenze o persecuzioni.
Salgono a bordo di bastimenti spesso fatiscenti e fragili sapendo di dover affrontare un percorso di mare molto pericoloso pur di raggiungere i Paesi europei, percepiti come sicuri e che possano offrire una nuova vita serena e sicura.
Ciononostante, il viaggio via mare, che li porterebbe verso destinazioni sicure, va considerato ugualmente pieno di pericoli, perché le imbarcazioni sono insicure e sovraffollate.
Sebbene l’ordinamento giuridico internazionale marittimo imponga al comandante della nave di procedere a soccorrere le persone la cui vita sia posta in pericolo, esistono vari fattori che potrebbero frenare il comandante stesso dalla procedura vincolante di fornire assistenza ai naufraghi, come, ad esempio, la condotta degli Stati di respingere le imbarcazioni piccole con a bordo migranti e richiedenti asilo, di negare lo sbarco alle persone tratte in salvo, perseguire i comandanti di navi che hanno prestato assistenza a tali individui, criminalizzare, fermare o ostacolare il modus operandi delle navi che forniscono assistenza potrebbero avere un effetto negativo sul dovere del comandante della nave.
Circa la questione del respingimento, si fa riferimento alla prassi di fermare coloro che reclamano il diritto di asilo e i migranti prima che raggiungano il mare territoriale di uno Stato costiero, prassi adottata da molti Paesi dell’UE, considerata non compatibile con le norme del diritto internazionale, come è avvenuto nel caso Hirsi Jamaa et alias c. Italia, che può pregiudicare il dovere del comandante della nave di prestare aiuto a coloro che si trovano nella situazione di perdere la vita in mare.
La politica di porre un muro alle navi che hanno a bordo persone salvate dal pericolo di naufragare nelle acque internazionali di non oltrepassare le frontiere marittime dello Stato costiero mostra la ritrosia dei governi di permettere l’ingresso nel proprio territorio a queste persone.
I comandanti di navi battenti bandiera di tali Stati potrebbero esitare a dover soccorrere e a imbarcare le stesse persone che lo Stato interessato stia cercando di evitare il loro ingresso. Le tattiche di schivare con il respingimento l’entrata di migranti e richiedenti asilo nel territorio potrebbero interferire con il dovere dei comandanti di fornire assistenza, come sancito dal diritto internazionale.
Un ulteriore modus operandi correlato degli Stati che potrebbe essere di impedimento sull’attuazione del dovere di ciascun comandante di fornire soccorso a individui che si trovino nella situazione di naufragare in mare è quello di negare lo sbarco a coloro che vengono salvati dal pericolo di annegare in mare.
È accaduto che degli Stati si sono rifiutati di far sbarcare migranti e rifugiati sulle loro coste; ciò potrebbe portare i comandanti delle navi soccorritrici a non applicare il loro dovere di intervenire nelle operazioni di salvataggio e, successivamente, di far salire a bordo tali persone a causa del timore che determinati Stati rivieraschi potrebbero manifestare riluttanza nel consentire lo sbarco.
Tuttavia, l’adempimento vincolante per gli Stati costieri si basa sul coordinamento e cooperazione al fine di assicurare che i comandanti delle navi, che prestano assistenza facendo salire a bordo individui in pericolo in mare, vengano esonerati dai loro obblighi, ai sensi della Convenzione SAR, e la responsabilità di assicurare che tale coordinamento e cooperazione si concretizzino in modo tale che i naufraghi assistiti vengano sbarcati dalla nave che li ha soccorsi, ovviamente, in un luogo sicuro.
Invece di garantire che il loro modus operandi viaggi sulla stessa linea dei loro doveri, secondo le disposizioni del diritto internazionale, gli Stati stessi manifestano spesso il loro dissenso a concedere lo sbarco dei rifugiati e migranti sebbene ciò fa scattare il dovere di accoglierli.
Il loro diniego di farli scendere dalle navi che li hanno in salvo comporta non solo la violazione degli impegni vincolanti che si sono assunti sul piano internazionale, ma anche l’impedimento ai comandanti dei bastimenti di prestare il salvataggio a chi si trovi in pericolo di naufragare.
Oltre alle condotte degli Stati che potrebbero incidere sull’obbligo di un comandante che comanda una nave di fornire l’assistenza in mare, esistono altri fattori che potrebbero ostacolare la vincolatività all’attuazione dell’intervento di soccorrere i naufraghi.
Uno dei fattori mancanti è la mancanza di apparecchiature per le comunicazioni radio a bordo delle navi, spesso fatiscenti, sulle quali viaggiano i migranti e coloro che bramano essere riconosciuti rifugiati durante la tratta di mare che attraversano.
Sappiamo bene che la CNUDM e SOLAS evocano in maniera categorica il dovere del comandante di un bastimento di procedere celermente per soccorrere gli individui che sono in pericolo, qualora sia informato del suo necessario intervento per assistere i naufraghi che stanno rischiando la propria vita in mare.
Non va, inoltre, dimenticato che le imbarcazioni o galleggianti con cui queste persone adoperano per la traversata mediterranea sono inadatte per la navigazione, senza avere a bordo uno strumento radiofonico per comunicare, per cui diventa arduo per chi si trovi nella cerniera del pericolo di poter trasmettere la richiesta di soccorso alle navi più vicine, conseguentemente, i comandanti delle navi non sarebbero in grado di avviare l’intervento di soccorso immediato.
In più, i timori di far salire a bordo le persone naufraghe potrebbero mettere in pericolo il loro equipaggio o i passeggeri, che inciderebbe sul dovere del comandante che deve fornire assistenza.
*Esperto in Diritto internazionale
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