Di Valeria Fraquelli
Roma. Le donne yazide sono da anni prigioniere di un incubo di violenza e abusi.
Dalla presa del potere del sedicente Stato islamico, alla lunga e durissima guerra per riappropriarsi del territorio, battaglie durissime che hanno viste le donne come protagoniste.
Le donne yazide non si sono mai risparmiate per ridare dignità al loro popolo e hanno deciso di andare in guerra in prima linea pur di non cadere nelle mani dell’islamismo radicale.
Adesso, finite le fasi più dure della guerra, nessuno ne parla di più ma la battaglia delle donne continua, senza esclusione di colpi.
Ne parliamo con Maria Stefania Cataleta, avvocatessa che collabora da lungo tempo con la Corte Penale Internazionale ed è molto attenta alle rivendicazioni delle donne.
Perché lo Stato Islamico ha sempre visto il popolo yazida come un nemico e ha fatto di tutto per cancellarne la sua storia e sua identità?
Il 3 agosto 2014 lo Stato islamico attaccò la regione del Sinjar, nel Nord dell’Iraq, compiendo violenze di massa ai danni della popolazione civile, come uccisioni, torture, stupri e riduzione in schiavitù.
Più di 5 mila civili furono uccisi e più di 400 mila furono costretti a fuggire.
Attualmente, sono più di 2.800 le donne e i bambini yazidi ancora prigionieri dello Stato islamico o che risultano scomparsi.
Il popolo yazida, marchiato storicamente come “adoratore del diavolo”, era criminalizzato e disprezzato dall’ISIS e pertanto, andava distrutto in quanto infedele.
Questo genocidio è stato perpetrato con straordinaria sistematicità e rapidità ed è stato sorretto da un’ideologia totalitaria.
In realtà, dietro la persecuzione vi era il progetto egemonico dello Stato islamico, che così si impossessava con metodi violenti di territori fino ad allora popolati da questa etnia priva di appoggi da parte degli attori internazionali e pertanto, particolarmente vulnerabile e indifesa.
In Germania, un jihadista iracheno è stato condannato all’ergastolo per il genocidio degli yazidi. Pensa che finalmente questo sfortunato popolo possa ottenere giustizia?
Questo processo segna un primo passo importante verso la giustizia in favore di un popolo che la sentenza sancisce essere stato vittima di genocidio.
E’ un’iniziativa giudiziaria coraggiosa poiché la Germania ha aperto per prima al mondo un procedimento per i crimini ai danni degli yazidi in virtù della giurisdizione penale universale.
Secondo questo principio, un accusato di crimini internazionali può essere processato dai giudici di qualunque Stato, anche in assenza di “contatti” con questo Stato, che in genere sono il luogo di commissione del crimine, la nazionalità del reo o la nazionalità della vittima.
Questi “contatti” sono necessari quando si tratta di reati comuni. In genere, poi, si richiede almeno la presenza dell’indagato nello Stato intenzionato a processarlo, il cosiddetto Forum deprehensionis.
Qui si tratta di un imputato iracheno ex membro del gruppo armato Stato islamico, Taha Al J., mentre le vittime sono una donna yazida e sua figlia di 5 anni.
Quest’ultima è stata incatenata a una finestra e lasciata morire di caldo, dopo che entrambe erano state ridotte in schiavitù, nel 2015.
C’è da sperare che la sentenza dell’Alto Tribunale regionale di Francoforte, che ha condannato l’imputato per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, funga da esempio per altri Paesi.
I crimini ai danni degli yazidi non possono restare impuniti.
La Corte Penale cosa sta facendo per aiutare il popolo yazida, in particolare le donne, ad ottenere finalmente condanne severe per tutto quello che ha subito?
Fin dal 2015 il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite aveva redatto un rapporto che denunciava la commissione di crimini contro l’umanità ai danni degli yazidi ad opera dello Stato islamico.
Veniva quindi richiesto al Consiglio di Sicurezza di adire la Corte penale internazionale per tali fatti.
Ma di particolare rilievo è stata la risoluzione numero 2379 del 25 settembre 2017, approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza, con cui si rispondeva alla richiesta di assistenza avanzata dal governo iracheno in difficoltà nel perseguire i responsabili dei crimini dell’ISIS contro la popolazione civile.
In assenza di inchieste nazionali, si chiedeva una inchiesta internazionale. Ma come ha dimostrato la sentenza dell’Alto tribunale di Francoforte, questa volta la giustizia nazionale è arrivata prima di quella internazionale.
Cosa può fare la Corte per le donne che hanno subito tante violenze?
La Corte penale internazionale ha celebrato già diversi processi per crimini efferati ai danni di donne ed è tra le mission di tale giurisdizione quella di non lasciare impuniti gravi reati come stupri di massa, matrimoni forzati e coscrizione di bambine in gruppi armati.
L’ex Procuratore era una donna che ha fatto tanto per le donne vittime di queste violenze, soprattutto in procedimenti riguardanti i Paesi africani.
Vi è da sperare che anche l’attuale Procuratore prosegua nel cammino tracciato ed estenda la lotta all’impunità per tali crimini anche ad altri contesti geografici.
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