Libia, l’Italia si deve muovere. Con coraggio. Il disordine nell’Ovest del Paese farebbe il gioco della Francia e di Haftar

Di Vincenzo Santo*

Tripoli. Le parole hanno un significato, anche quelle non dette. Soprattutto se a “non dirle” è un diplomatico. Pochi giorni fa, Eisenberg, l’ambasciatore americano a Roma, nel riconoscere all’Italia un ruolo di guida per la Libia, ha poi suggerito un dialogo con Parigi. Strano. Infatti, se noi siamo la guida, il diplomatico avrebbe dovuto sollecitare Parigi ad avere un dialogo con noi, non il contrario.

Il grande movimentismo di Haftar

Semplicemente egli ha “non detto” di non aspettarci troppo. Cioè, noi non dobbiamo aspettarci alcun supporto americano che possa stridere con le linee di azione francesi.

Leviamocelo dalla testa.

El il capo del Governo Giuseppe Conte farebbe bene a smetterla di gongolare per le pacche di Trump. Anche in questo nessun cambiamento, anche Gentiloni ne aveva ricevute. Il cambiamento sarebbe quando un nostro presidente del Consiglio riuscisse a dare una pacca a Trump. Gli Stati Uniti non hanno attualmente un grande interesse nell’impegnare risorse ed energia in Libia ed il comando militare per l’Africa (Africom) si occupa unicamente della caccia ai jihadisti ed all’occorrenza tesse relazioni con chi “merita”, Haftar compreso. Sia chiaro!

Il tutto quindi si gioca sulla capacità degli attori esterni di accordarsi. E questi, facile a dirsi, sono Francia e Italia. Con la differenza che la prima, buttata fuori dalla Tunisia e vogliosa con Sarkozy di rifarsi a nostre spese sulla Libia, ha da subito compreso chi sia l’uomo forte da sostenere, Haftar, con il supporto di Egitto, sauditi ed Emirati. Insomma, i nostalgici del vecchio regime di Gheddafi.

La seconda, invece, si è da sempre cullata di essere l’effettiva guida, solo per il fatto che sostiene un governo traballante, in qualche modo riconosciuto dalla Nazioni Unite. E pensiamo che questo sia un punto di forza. E perché mai il Palazzo di vetro non avrebbe dovuto riconoscerlo? È solo stata una formalità di comodo.

La Libia è nel caos. Ed è in mano alle milizie. I recenti scontri in Tripoli lo testimoniano. Ma questo caos può essere risolto con un compromesso con la Francia? Forse non esiste via di uscita. Dobbiamo ammetterlo, noi abbiamo perso terreno, non c’è dubbio, ed ora siamo in soggezione di quota. Non si può francamente pensare che funzioni un piano che preveda la formazione di un governo legittimo eletto solo a seguito di un accordo tra tutte le parti coinvolte nel conflitto. Soprattutto ora che gli attori espulsi da Tripoli nel 2014, le milizie di Misurata e Zintan, che hanno contribuito a rintuzzare l’offensiva della 7^ Brigata, sono rientrate in città.

No, non è attuabile.

Il segnale è stato chiaro: stiamo boccheggiando sul dossier Libia. E un gravissimo segno di debolezza è stato l’incontro, fuori casa, del nostro ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, con Haftar. Va anche bene riavvicinarcisi, ma non così e non a questo livello.

Inoltre, non mi cullerei del fatto che la recente risoluzione 2434 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, non menzionando la data del 10 dicembre come desiderato dai francesi, quale giorno per la tenuta delle elezioni presidenziali, sia un loro insuccesso.

Ci accontentiamo di poco e denota la povertà di immaginazione dei nostri giornali. Non c’è stato veto, inoltre! Il successo dei francesi sta invece nel fatto che questa risoluzione richiama la conferenza di Parigi del 28 maggio scorso (welcoming the momentum generated by the international conference on Libya hosted in Paris on 29 May 2018, recalling the SRSG’s urgent call to Libyan leaders to stand by their commitments in Paris) in modo inequivocabile e nessuna menzione invece viene fatta sull’idea nostra di tenerne un’altra in Italia a novembre.

Italia e Francia hanno il medesimo obiettivo, si intende. Entrambe ricercano la stabilizzazione del Paese perché non sia un ricettacolo di terroristi e la smetta di essere una staging area per migranti irregolari. Ma i punti di vista divergono sul come arrivarci e lo si vede da come le mediazioni vengono condotte. Purtroppo, con Parigi avanti per più di un’incollatura.

La Francia vede nella Libia un nodo di instabilità che con le sue frange terroristiche, quali per esempio l’’Islamic State in the Greater Sahara (ISGS)) coinvolge non solo il Maghreb, ma anche il Sahel, dal Mali al Niger al Chad. Tutti amici di Parigi.

Quindi, la presenza di un uomo forte che assuma il controllo di molta parte almeno del Paese è la soluzione. E quest’uomo è Haftar. Una soluzione interna, quindi, frutto di una grande e storica tradizione culturale coloniale. Quella che, temo, può essere più proficua in queste situazioni.

Noi, invece, abbiamo dall’inizio rigettato questa opzione, temendone la troppa vicinanza con la Francia stessa, senza considerare il supporto di cui il Maresciallo gode da parte dell’Egitto e dei sauditi. Gli interessi economici nell’area di Tripoli ci hanno condizionati nel parteggiare per quelle parti, per molta parte islamiste, che operano nell’Ovest ed osteggiano Haftar.

Quelle stesse parti che mercanteggiano esseri umani. Da qui il nostro appoggio per Tripoli ed il timore che elezioni a brevissimo termine possano generare ulteriori disordini e mettere a rischio gli interessi commerciali dell’ENI, quindi nostri, e la provvista di gas del Green Stream verso Gela. Ma l’appoggio neanche tanto nascosto per questi partiti non ci regala certamente l’amicizia del Cairo, né della penisola arabica.

Macron, come a suo tempo Sarkozy, ritiene fondamentale l’influenza francese sulla Libia quale piattaforma tra Mediterraneo e il Sahel. Influenza che gli consentirebbe di controllarne traffici, migranti compresi, e risorse. E la Libia è una grande risorsa, infatti. La Francia, come noi, intende rafforzare la propria presenza nel settore energetico. Il petrolio libico è tanto, con circa 50 miliardi di barili accertati in riserve. Non solo, è anche molto vicino e pregiato. E poi c’è il gas. L’ENI in Tripolitania, la TOTAL in Cirenaica (1). E se Haftar, in Cirenaica, prende il sopravvento su Tripoli, chi potrà avvantaggiarsene?

E poi, ancora, c’è tutto il business della ricostruzione. Mica poca roba!

Sotto l’aspetto strategico, in queste situazioni, non è sbagliato aver fissato una data invece di mandare un equivocabile messaggio di attesa: “provided the necessary security, technical, legislative and political conditions are in place”. Fissare una data manda un segnale di impegno serio, determinato, rispetto alla vaga speranza che si realizzino condizioni certo auspicabili ma al momento di certo molto poco probabili.

Ma è davvero quello che Parigi vuole? Non lo credo.

Va da sé che se il caos continua, non ci sarebbe da stupirsi che Haftar forzi la mano e prenda il sopravvento militarmente. Non dimentichiamo chi ha dietro. E penso sia questa l’ipotesi a cui la Francia stia seriamente pensando.

E non ho alcun dubbio che la Macron osteggi anche il National Conference Process, condotto, e ci sarebbe da riconoscergli la determinazione, da Ghassam Salamè, il capo della missione di supporto in Libia delle Nazioni Unite.

Macron tra Al Serraj e Haftar

Non mi stupirei, infatti, che dietro ai recenti scontri ci fosse la manina di Parigi, proprio per contrastare l’assidua azione di questo infaticabile diplomatico libanese che, a quanto pare, dopo più di 70 riunioni in giro per il Paese, coinvolgendo più di 6 mila rappresentati delle varie parti, sarebbe riuscito, dice lui, a raccogliere un generale consenso per lo svolgimento di nuove elezioni. Ma è francamente tutto da verificare nella realtà, cioè quando la necessità di decentralizzare il potere alle municipalità locali ovvero la ridistribuzione delle risorse potranno fare la differenza tra teoria e pratica.

Chissà come mai, non appena si palesano progressi verso una forma di stabilizzazione e una soluzione pacifica della crisi in corso da svariati anni, segue quasi sempre una nuova crisi causata da qualche scontro tra milizie o attacco terroristico, che precipitano il Paese in un nuovo abisso di disordine e disperazione.

E il disordine nell’Ovest del Paese farebbe il gioco della Francia e di Haftar. Parigi vuole molto di più della semplice stabilizzazione. Non si abbiano dubbi!

Ove non si volesse tornare indietro sulle proprie posizioni su Haftar, Roma farebbe bene a prevedere, nella propria “grande strategia” per il dossier Libia, se esiste, alcune iniziative più forti, oltre a quella di prendere il caffè a casa di Haftar o di cercare a tutti i costi i colpevoli di Regeni al Cairo.

Predisporre cioè piani militari, qualcosa di più complicato e meno da NGO, più coraggioso della semplice assistenza sanitaria che garantiamo da quelle parti.

Intanto, dovrebbe trasformare da subito l’attuale operazione “Mare Sicuro” in una vera e propria operazione di interdizione marittima, “comprandoci” il beneplacito di Tripoli, integrando le forze della Guardia Costiera libica che addestriamo ed equipaggiamo e svincolandosi dalle inutili Sophia e Themis. Una buona misura, minore se si vuole rispetto al “blocco navale”, per combattere più efficacemente l’immigrazione illegale, scoraggiandola con un’efficacia differente. Ma, allo stesso tempo, ci si fa vedere. Aiuta!

In secondo luogo, prevedere l’elaborazione di piani di contingenza per lo spiegamento immediato di altre forze, a difesa dei principali impianti di estrazione, stoccaggio e di distribuzione dell’Eni. Abbiamo per mesi sorvegliato una diga in Iraq, non possiamo fare anche questo che vale molto di più?

E provarli!

Misure che, ove attuate, oltre a dimostrare la volontà di difendere un proprio importante settore commerciale, dimostrerebbe grande determinazione nel voler esserci.

Ed è il coraggio della determinazione che molto più spesso che mai ripaga.

1 Incluso il recente acquisto, per ora non riconosciuto dalla NOC (National Oil Company) del 16% del giacimento di Waha dall’americana Marathon Oil.

*Generale di Corpo d’Armata (Ris)

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