Di Vincenzo Santo*
Un mio caro amico ha chiesto, all’indomani dell’ultimo attacco di Londra, il mio punto di vista sul perché l’ISIS ci combatta in quanto, dice, non ci sono risposte chiare in giro. Quel mio amico ha perfettamente ragione. Nel senso che non esistono risposte che oggettivamente riescano a soddisfare tutti dal momento che la motivazione politica ormai insozza ogni ragionevolezza. Ora, “a freddo”, gli fornisco la mia idea, pur nella piena consapevolezza che anche questa mia potrà essere una non risposta o solo l’elucubrazione di un arrabbiato.
Dico “a freddo”, in quanto si è ripetutamente affermato il trend per il quale dopo un attacco terroristico, “a caldo”, l’eccitazione di dire e scrivere qualcosa assale tutti, ma si dicono le medesime cose, mai niente di veramente originale o che riesca a vincere il politically correct.
E poi, perché solo l’ISIS? É solo l’ultimo nome di un fenomeno che ci porteremo dietro per molto tempo. Cambieranno maglietta tra un po’ e ce la dovremo vedere con un altro simbolismo.
Non farò cenno qui, tuttavia, a chi, pur “entità statuale”, potrebbe essere dietro le quinte a tirare le fila con fiumi di soldi. Oppure di come queste organizzazioni “ibride” si autofinanzino. Che è solo la prima faccia della medaglia. La seconda, invece, riguarda quel qualcosa di “spirituale” che spinge a uccidere, cioè l’anima di colui che abbiamo definito terrorista. E anche qui, inchiostro è stato consumato persino per equiparare questi semplici bastardi a eroi di una resistenza. Pazzesco!
Io penso che l’interpretazione del Corano scateni una reazione contro quei fenomeni che vogliono caratterizzare il mondo, nella loro spinta globalizzante. E relativizzante. Sulla prima giocano i Governi musulmani, principalmente le monarchie e le teocrazie del Golfo, per lucrarci da una parte e dall’altra per presentarla come temibile corruttrice da rigettare. È la tentazione demoniaca da sventolare in casa, utile per mantenere il potere ed estendere la propria influenza. Quale di quei Governi si affermerà sugli altri? Difficile dirlo ora, ma l’Arabia Saudita ci sta provando seriamente.
Ma è il nostro relativismo, soprattutto, che io penso sia la componente fondamentale che, spaventando chi ha ancora fede e tiene ai simboli della propria cultura nonché sfruttando la debolezza dell’uomo quando cade vittima di convinzioni ideologiche estremizzanti, lo spinge lungo un percorso che ha un improbabile ritorno e che conduce all’esaltazione violenta, anche al sacrificio assassino.
Una premessa provocatoria: siamo noi occidentali veramente certi che non sia quella islamica la religione che oggi conservi i valori della cultura occidentale più di quella cristiana ormai svilita dal moderno dilagante relativismo? Noi non costruiamo più niente di bello, se ci si riflette. Parafrasando Stefano Zecchi(1), pare come se si sia smarrito il linguaggio della poesia, quello delle arti e ci si basi esclusivamente sul valore del sapere tecnico e scientifico, che appanna l’attenzione per il bello, quel qualcosa che da sempre ha caratterizzato lo spirito occidentale. Rifiuto del bello ma esaltazione dell’effimera raffinatezza, cioè di un qualcosa che è legato al momento, all’apparenza, alla moda, qualcosa che passa, che pur regala una fuggevole ebbrezza ma che sintomo è della stanchezza occidentale da desiderio. Un’estetica dell’istante, è vero, ma che si riflette anche sul senso di responsabilità e, pertanto, sull’etica.
Concordo quando Zecchi afferma che è proprio la bellezza che dona un senso alla vita e la salva dal nichilismo che, invece, abbatte le gerarchie dei valori o le annulla persino, disgregando il valore simbolico della vita, nell’ossessione giornaliera dell’agire nella confusione e nell’indifferenza tra il bene e il male. Con la particolarità, dico io, che prendiamo il bene che ci fa comodo e non riconosciamo il male dove c’è. Questo è relativismo. Sempre secondo Zecchi, infatti, “… la conoscenza dell’Occidente moderno è pratica e funzionale, e il suo significato etico viene ritenuto secondario o irrilevante di fronte al potere che la scienza conferisce all’uomo, un potere che si sviluppa nell’indifferenza del bene e del male che può provocare”.
È la degenerazione della civiltà, la quale diviene semplice e meccanica civilizzazione, basata sulla sola conoscenza e capacità scientifica senza che questa si sposi con la contemplazione, che è lettura, riflessione e pensiero. Nonché previsione delle conseguenze. Fuga dalla contemplazione e dal bello, surrogati dal semplice ed elementare linguaggio per slogan, che ha commercializzato persino la politica.
È, infatti, il trionfo del fare e dell’apparire, dell’ossessione di essere presente (oggi con i social è l’apoteosi), della comunicazione facile e continua, ma troppo spesso inutile, come l’ossequio alla tradizione rappresenta un obbligo del passato, un vincolo troppo oneroso e lesivo della libertà. È un rapporto ossessivo con il solo presente.
Del resto, basti vedere come le nuove generazioni si vestono, parlano, scrivono, si relazionano e si deturpano nel corpo. Pensiamo alle trasmissioni televisive più seguite, al non servizio pubblico che io ritengo la RAI ci propini, all’ignoranza selvaggia dimostrata da molti concorrenti negli stupidi quiz televisivi. Al decadimento della scuola che non riesce più a insegnare il valore dell’impegno e del sacrificio. Alla spasmodica ricerca del guadagno facile. Pensiamo, infine, all’uso irriguardoso e quasi dispotico del “tu”, che violenta impunemente ogni esaltante, dolcissimo, pur faticoso, processo di conquista dell’altrui confidenza e della sua sfera privata. Il che, in un mondo legato all’ossessiva protezione del “privato”, rappresenta un paradosso. Ma che importa?
Stiamo vacillando, io credo. Abbiamo ancora la medesima energia culturale che ci ha accompagnato nei secoli? È la nostra progettualità ormai così sterile dal doversi basare, ad esempio, sulla sola affermazione apodittica che una legge vada approvata perché è un “segno di civiltà”, come ha appena sottolineato Paolo Gentiloni per lo ius soli, quando ormai io temo si sia realmente perso che cosa quella parola significhi? O quando ci si genuflette dinanzi a quello che gli altri fanno o dicono? Il senso di appartenenza ad una civiltà sembra essere un fardello divenuto scomodo e appare sconveniente, financo scorretto, l’accettare e il riconoscere che quel concetto implichi un’identità che si è formata in un contesto storico e geografico ben definito, che quindi postula dei limiti, dei confini. Abbiamo ancora la carica spirituale e la tensione etica che riconoscano e supportino il senso dello stato? Abbiamo ancora l’orgoglio di affidarsi ai nostri simboli? Ne dubito, e molto.
Qualcuno, viene auspicato in silenzio, penserà al nostro futuro e, nel frattempo, come detto, per pulirci la coscienza da questa pigrizia, accarezziamo del bene quello che ci conviene, quello che appare politicamente corretto, mosso dall’imperante pensiero unico, quello sdoganato abilmente dai cosiddetti progressisti. Invece, chiudiamo gli occhi pericolosamente sul male, pensando che tanto non tocchi a noi.
Queste, secondo me, le nostre debolezze. E le nostre colpe. Populista? Contento di esserlo!
Nello stesso tempo, infatti, stiamo lasciando spazio a chi ha la forza di un’autentica fede religiosa, con la quale tenta di combattere il diffondersi di questa nostra appena visibile decadenza, con un credo che non ammette compromessi, ma che si fa forza dell’orrore suggerito da un terribile furore religioso.
In poche parole, io dico che il mondo islamico ha in realtà paura di noi, o meglio di tutto ciò con cui potremmo inquinare il loro modo di vivere e il loro mondo. Come detto, molto per colpa della globalizzazione, la quale ha bisogno che tutto si relativizzi, per essere quello che è e per essere di più di quello che è. È l’allarme inascoltato a suo tempo lanciato da Ratzinger. Loro, gli islamici, hanno quindi molta paura del nostro relativismo.
Paura che viene declinata su diversi livelli, il tattico, l’operativo e lo strategico.
Sul piano tattico essa si trasforma in aggressività. Con tutta probabilità più marcata in coloro che vivono ormai tra di noi (soprattutto i più giovani, più influenzabili ma anche i più sensibili alle utopie e alle manifestazioni di forza individuale, una sorta di blue whale islamica), per molti dei quali non servirà lo ius soli per smaltirla. Aggressività forse accresciuta dalla rabbia nel vedersi comunque diversi da un mondo che invidiano, ma che induce rabbia e quasi inevitabilmente porta alla radicalizzazione, come viene da molti definita. In pratica è l’assimilazione di un’etica assoluta, che non ammette contrapposizione dialettica, i cui valori assoluti spingono a fare cose terribili – e farle qui da noi oppure in Iraq o in Siria non fa differenza – e in quelle cose terribili c’è la volontà di dimostrarsi superiori a noi, per quello che siamo e che rappresentiamo; a noi infatuati da un nichilismo commerciale, a differenza di loro imbevuti di quello stragista, forse vincente. Hanno paura di noi ma non della morte, e per questo ci combattono, si immolano, uccidono con qualsiasi cosa abbiano la possibilità di usare, a costi molto ridotti peraltro (e molti sono certo si autofinanziano), ma generano terrore. Lo diffondono in modo imprevedibile e casuale. Colpiscono quando la paura precedente si è sedata. È la gran forza dell’imprevedibilità. In guerra è un vantaggio. Magari, chissà, pensano persino di riscattare in tal modo una loro parte di vita spesa tra gli infedeli crociati.
Non c’è rimedio per questo, e per molto tempo a venire, se non ci convinciamo che è una guerra. Dobbiamo farcene una ragione. Ma per impegnarsi in una guerra bisogna avere convinzione e coraggio per misure poco gradite.
Ed è quel terrore – che noi facciamo finta di rifuggire, e che solo dopo anni di massacri, ha portato la May, che del governo britannico faceva parte da un bel pezzo, a dire “enough is enough” – che sarà funzionale al livello operativo.
Qui entriamo in un ambito più sofisticato e più ampio. Quello che parte dall’instabilità del Medio Oriente, alle vicende di al-Qaeda e del Califfato – con la sua dichiarazione un po’ balorda di aver costituito un califfato, la terra promessa, territorio importante per incrementare i finanziamenti e per regalare un sogno ai propri sostenitori da ogni dove -, alla loro propaganda sanguinosa e al coinvolgimento di tutta la filiera islamica, in termini di denaro e non solo, che fa capo alla penisola arabica, al Golfo Persico e alla Mezzaluna Crescente. Il tutto orientato ad un semplice obiettivo, da maturare con pazienza.
Parto dall’idea di integrazione.
Concetto sin troppo chiaro. Consisterebbe nell’accogliere persone che provengono da altre realtà, differenti per identità, storia, cultura e tradizioni e via via farle sentire a casa propria, assimilando le medesime tradizioni, facendo proprie la stessa cultura, la storia e, soprattutto, rispettando le stesse leggi. Abbiamo la forza e la volontà per imporre un tale processo? L’integrazione ha dei risvolti violenti, non necessariamente sul piano fisico. Quindi, per via delle nostre debolezze, è un percorso che il nostro occidente sono quasi certo non vorrà imporre. Ne pagheremo le conseguenze.
E l’obiettivo operativo dell’Islam è stato proprio quello di renderci accondiscendenti, remissivi. E c’è riuscito.
È inutile qui ripetere quanto a litania viene costantemente ripetuto sulle colpe dell’Occidente che è incapace, e per questo colpevole, di integrare, di accogliere. Anzi colpevole di erigere muri, di inebriarsi di islamofobia e così via. Le lamentazioni palestinesi, le accuse per le disgrazie lasciate dalla colonizzazione, i confini tracciati con il righelli da quei maledetti di Sykes e di Picot, l’aver sostenuto e favorito Israele e così via, è tutta una letteratura della penitenza che ha portato i paesi islamici a erigersi con sempre maggiore supponenza, talvolta con isteria e, soprattutto, con la consumata pratica del vittimismo politico, nei confronti di un odiato ma utile occidente, portando la nostra intellighenzia a condannare con troppa disinvoltura tutti coloro che professino idee contro il pensiero unico imperante, quello dell’inclusione, ovvero dubbi sul ruolo pacifico di quella religione. Guai agli islamofobi, quindi, così come guai a tutti coloro che persino arrivino ad accusare che talune NGO facciano il gioco degli scafisti. Anche i giornalisti vengono zittiti, come accaduto recentemente a Filippo Facci.
Come se il dimostrarsi non rabbiosi o non rancorosi, persino non satirici, nei confronti di chi dell’Islam fa comunque una condotta di vita violenta, non sia di per sé una sottile e camuffata manifestazione di superiorità di setta. Ipocrisia pura!
Se è vero che le parole e le immagini sono strumenti di guerra, non lo sono anche di più gli accoltellamenti di persone innocenti tanto da esigere la distruzione di quegli assassini o solo sottolineare pur con veemenza che l’accondiscendenza verso quella religione possa condurci alla resa e alla distruzione? Vogliamo essere veramente sordi ai vari e innumerevoli gridi di allarme, sin da quelli della benedetta Oriana Fallaci? O fa comodo a qualcuno per il quale, ripeto, qualsiasi cosa che si voglia approvare e che provenga dall’area progressista sia per costruzione solo per amore di civiltà? E di quale civiltà parla?
Tenetevi forte! L’Islam non vuole l’integrazione! Non gli è funzionale. Si sperava che l’integrazione potesse essere agevolata dalla spinta irrefrenabile della globalizzazione, con il suo omogeneo modello di sviluppo, di consumo e di vita. Ma non è così. Impossibile per l’Islam correre dietro alla globalizzazione, distruggerebbe i suoi valori e i suoi simboli.
Più ci terrorizza più si rende conto che noi stiamo cedendo nel riconoscergli il diritto, per i suoi seguaci fondamentale, di poter mantenere la loro identità culturale, con la conservazione delle loro tradizioni e dei loro principi associativi. Anche qui da noi. Del resto, mi pare di poter dire che i numerosi appelli fatti affinché i musulmani europei si schierassero apertamente contro le derive terroristiche della loro religione abbiano prodotto risultati più che scadenti.
E anche ieri a Colonia, ha scritto Borgonovo su La Verità, si è assistito al nuovo clamoroso fallimento del multiculturalismo europeo. Pochissime persone, nonostante l’impegno degli organizzatori. Viene riportato che la Ditib (l’unione turco islamica per gli affari religiosi, che ha anche legami con altre sul nostro territorio) ha lamentato che tali manifestazioni siano discriminatorie nei confronti dei musulmani e che, inoltre, non si potesse, per quella di ieri, pretendere che degli islamici sfilassero sotto il sole in pieno Ramadan. Cose da pazzi!
Tuttavia, il buon Borgonovo si è sbagliato: non è fallito il multiculturalismo come lui ha scritto. Quello di Colonia, invece, è la dimostrazione che non può esserci integrazione. Perché, ripeto, loro non la vogliono! È invece il multiculturalismo che ne è uscito vero vincitore.
Ed è il multiculturalismo a cui l’Islam tende. È comunque divisione garantita, quello che vuole. Vi hanno fallito francesi e britannici e noi, per pigrizia politica, crediamo di far meglio. Con esso, che rappresenta il “come”, l’Islam si può espandere e affermarsi in Europa, data la nostra debolezza e la nostra stupida accondiscendenza. Grazie ad esso conseguirà il suo fine strategico, l’ultimo livello, quello di sostituire e annullare la nostra storia e, quindi, la nostra identità.
Il multiculturalismo garantisce il mantenimento delle radici culturali, non disperde il “bacino d’utenza”, favorisce l’infiltrazione graduale ma costante, mantiene i legami con la casa madre e i suoi finanziamenti a favore di quelle realtà. Le comunità si espandono mantenendo l’identità. Noi gli stiamo semplicemente dando una mano. Gli islamici hanno chiaro in testa che noi siamo i più deboli in questa partita. Perché loro posseggono una fede incrollabile, il desiderio forte di rivincita e la convinzione di essere migliori di noi sul piano etico. Non potranno loro essere contaminati da altre culture per queste ragioni. E poi hanno la forza dei loro simboli, che la globalizzazione non riuscirà a cancellare come ha fatto e sta facendo con quelli nostri.
A quel punto, califfato o sultanato che sia, non avrà più molta importanza. Quindi, terrorismo in Occidente per accentuare il multiculturalismo, via obbligata verso la sostituzione finale che è un mondo di dominio islamico senza confini, cosmopolitismo della mezzaluna. Ci vorrà del tempo, ma anche questo è dalla loro parte. Distopia della peggior specie.
Noi non stiamo fallendo nell’integrazione, sono loro che la rifiutano.
Loro sono vicini al Corano per sorbirne la violenza intrinseca delle sue pagine, noi riflettiamo sulla Bibbia e abbiamo abbracciato il Vangelo proprio per allontanarci da quel tipo di violenza e, ovviamente, ci risulta difficile comprendere un atto di morte fine a se stesso, portato a termine da menti animate da un’etica assoluta e dei cui atti ci sfugge l’obiettivo strategico. Ma sbagliamo nel credere che tutti debbano e possano essere come noi. Forse dovremmo pensarci di più e smetterla di dimenticare chi e cosa siamo!
*Generale CA ris.
1() Paradiso Occidente – La nostra decadenza e la seduzione della notte (Mondadori, 2106)