Luigi XIV, Primo Ministro di se stesso, contro i Papi: dal bilateralismo sofferto alla vittoria della Chiesa

Di Claudio Mancusi

Roma. La storia politica del Seicento ha una cesura alla fine del sesto decennio, come già era avvenuto nel secolo precedente ed, ancora come l’altro, l’ultimo quarantennio può essere unificato sotto un comune denominatore; ma mentre allora era la Spagna ad essere al centro e ad avere il predominio sull’Europa, ora è la Francia ad esercitare quel ruolo, od, ancora meglio, è il suo sovrano ad occupare con la sua prepotente personalità tutto lo spazio disponibile, finendo poi con il rendersi malvisto a tutti e perdendo buona parte dei risultati raggiunti nella prima fase del suo governo. Si parla di Luigi XIV, il re Sole, che alla morte del Mazarino volle essere il primo ministro di se stesso ed obbligò tutti gli altri capi di Stato a fare i conti con lui, misurarsi in guerre od in sottili dispute giuridiche, avendo egli la pretesa di comandare a tutti e su tutto perché si sentiva direttamente investito da Dio di un potere assoluto, né voleva udire ragioni, accettare limiti, usare moderazione, rispondere ad alcuno circa il suo comportamento.

I pontefici, in particolare, sentirono le conseguenze dolorose di tali premesse altezzose ed esclusivistiche, né Luigi XIV ebbe verso di essi il men che minimo riguardo, non adoperando neppure quelle forme ce di solito si chiamano ma che in sostanza non sono altro che norme della buona educazione e di un vivere civile. Per un puntiglio male inteso e volendo salvare ad ogni costo il prestigio nazionale francese, il re trascese anche a violenze personali verso gli ecclesiastici e, nella politica religiosa, esasperò le tendenze che sono dette gallicane appunto perché erano sempre state latenti in quel paese ed egli portò al massimo livello. Ma a sua parziale giustificazione bisogna riconoscere che il suo atteggiamento non fu che l’espressione più clamorosa di una condizione generale, che era comune alla politica europea di quel tempo e dell’età moderna in genere: gli Stati nazionali e le monarchie assolute applicavano anche al settore ecclesiastico i metodi di governo intesi a soffocare qualsiasi libertà, a ridurre le autonomie, a comandare arbitrariamente (assolutismo viene da ab-solu-tus, sciolto da qualsiasi vincolo, controllo, legge superiore universalmente valida). Ogni grande potenza intendeva avere a sua disposizione la Santa Sede ed era soprattutto in occasione dei conclavi che le pressioni si facevano più pesanti; le diverse forze finivano in tal modo di elidersi e neutralizzarsi prolungando sconvenientemente quelle riunioni, perché le fazioni sostenevano a spada tratta i loro candidati senza curarsi degli interessi della Chiesa, dell’aspettazione popolare, del buon nome sacerdotale.

Luigi XIV diede un’interpretazione esagerata di alcuni privilegi goduti già da tempo dai sovrani cattolici (come, ad esempio, il diritto di quartiere per le loro ambasciate in Roma, il permesso di mantenere speciali guardie, ecc.), ma è facile intendere che non sono i singoli episodi in sé che hanno valore, bensì il fatto che siano stati il pretesto per affermazioni di principio a tipo cesaropapista. I pontefici, a loro volta, pur essendo desiderosi di mantenere la pace, anche perché erano coscienti della loro debolezza politica e militare, dovevano d’altra parte cercare di resistere quanto più era loro possibile per rispetto della loro carica ed in vista del bene generale della Chiesa universale, la quale non doveva legarsi ad un solo re se non voleva perdere immediatamente i contatti ed il favore degli altri.
Sono rimasti particolarmente famosi gli incidenti diplomatici scoppiati a proposito dello scontro tra la guardia còrsa, che era al servizio del papa Alessandro VII, ed i dipendenti dell’ambasciatore francese, duca di Crèqui; Alessandro dovette umiliarsi e fare chiedere scusa dai suoi familiari a dare riparazioni nel 1664.

Altra controversia sorse in merito al diritto di asilo rivendicato ad oltranza da un altro ambasciatore francese, il marchese di Lavardin, mentre ciò rendeva impossibile la tranquillità cittadina in Roma; il Lavardin, arrivando a prendere possesso della sua carica, si era fatto accompagnare da un vero esercito, che attraversò la città con grande ostentazione e si accampò in piazza Francese, ma il papa Innocenzo XI non si lasciò spaventare e vedendo che l’ambasciatore considerava immune non soltanto il palazzo ma le vie e le case vicine con tutte le persone abitanti – e quindi finiva con il diventare il protettore di ladri, assassini, rivoltosi, che erano ben felici di trovare scampo a così buon mercato -, rifiutò di ammetterlo alla sua presenza e proibì che gli fosse dato ingresso in qualsiasi chiesa romana. L’antipatia francese per quel pontefice, di casa Odescalchi, durò a lungo e solo di recente si potè procedere alla beatificazione di questo santo difensore sia delle prerogative pontificie sia dell’intera cristianità; con il suo successore si potè giungere ad una composizione più che onorevole per la Santa Sede ed il Lavardin venne richiamato da Roma.

Luigi XIV

Ma il vero urto tra i papi e Luigi XIV si verificò ovviamente su questioni più sostanziali, cioè sul diritto di regalìa, o la facoltà rivendicata dal re fin dal 1673 di godere per tutto il territorio francese delle entrate dei vescovi durante il periodo di sede vacante, nonché di quella di conferire ad libitum le prebende; si giunse all’imprigionamento del nunzio a Parigi, il Ranuzzi, ed all’occupazione armata di Avignone, che era tuttora un possesso della Chiesa ma tutto incluso dentro il territorio regio.

La vertenza venne presto portata sul piano dottrinale, dato che nell’assemblea generale del clero francese, convocata per l’ottobre del 1681, non soltanto furono approvati i decreti di Luigi in argomento, ma vennero elevate dimostranze al pontefice per il suo comportamento verso un sovrano tanto zelante e buon cattolico! In quella stessa occasione furono votati ( 19 marzo 1682 ) i famosi quattro articoli della “Dichiarazione del clero gallicano”, stesi da Gian Benigno Bossuet, illustre oratore sacro e vescovo di Meaux, nei quali, pur facendo un riconoscimento dell’autorità papale in materia spirituale e dogmatica, si afferma che i sovrani non dipendono in nulla dal potere ecclesiastico e che le regole e i costumi tradizionali della chiesa francese limitavano i poteri apostolici; infine nella Dichiarazione erano rivendicate le facoltà già godute al tempo dei concili generali e non si ammettevano come irreformabili i giudizi pontifici se non vi era, accanto ad essi, il consenso della ciesa universale.

I precedenti di tali proposizioni si possono trovare in una polemica tra un favorito del re Enrico IV Borbone ed un gesuita, le cui opere furono criticate dall’Università di Parigi e fatte bruciare perché ritenute lesive della sovranità statale francese; anche sotto il Richelieu si tornò a discutere in proposito finché lo sfrenato orgoglio di Luigi XIV riaccese i contrasti. L’argomento principe avanzato dal Bossuet era questo:

“In dubiis libertas”, ossia l’infallibilità pontificia era ancora materia sub iudice e quindi si poteva dubitare di essa; la Santa Sede, a suo avviso, aveva ricevuto il dono dell’indefettibilità, che è un’altra cosa dalla precedenteprerogativa in quanto essa consente la possibilità di errore ma postula anche una successiva correzione. Come si vede, siamo al centro di problemi ecclesiastici, che soltanto più tardi ebbero una definizione dogmatica e che risentivano di tutto il pensiero sviluppatosi dal tempo dei Protestanti in avanti in una ricerca di equilibrio tre un sicuro ancoraggio e la libertà di giudizio, tra un accentramento uniforme e le opportune concessioni locali. Le infiltrazioni gallicane rimasero a lungo e largamente nell’ambiente francese, anche se non vi è dubbio che nella controversia i papi ottennero una bella vittoria morale sia di fronte al clero sia nei confronti del sovrano assoluto.

Luigi XIV infatti, sopravanzando le intenzioni dei partecipanti all’assemblea dell’82, i quali avevano volto soltanto esporre un parere, si affrettò a rendere obbligatori gli articoli gallicani con un editto ed a farli insegnare nelle scuole e nei seminari; il pontefice Innocenzo XI a sua volta si lamentò del comportamento reale e si rifiutò di elevare all’episcopato i prelati che gli erano stati proposti da Luigi se avevano partecipato a quella discussa assemblea. In breve tempo ben 35 sedi francesi rimasero vacanti ed il sovrano dovette cominciare a fare marcia indietro; il nuovo papa, Alessandro VIII pur mostrandosi molto conciliante, emanò prima di morire (1691) una costituzione in cui, senza entrare in merito alla dottrina esposta negli articoli incriminati, dichiarava nulle ed invalide le decisioni dell’assemblea. Allora il re cedette ancora, date anche le sue cattive condizioni politiche generali, ed Innocenzo XII ricevette una lettera di scuse dai pronosticati vescovi con il solenne impegno di non seguire le teorie gallicane; Luigi con un nuovo editto proclamò che la dichiarazione dell’82 non doveva più avere alcun valore legale! La Chiesa aveva vinto sul Re Sole!

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