Di Pierpaolo Piras
Gaza. Continua l’aspro conflitto armato tra lo Stato d’Israele e la fazione palestinese capitanata da Hamas, nel territorio di Gaza.

Un edificio colpito a Gaza – Telegram
In questi ultimi giorni, gli scontri si sono estesi a Gerusalemme e nella Cisgiordania.
In aumento le vittime, in particolare civili.
HAMAS, IL BRACCIO ARMATO
Hamas (Movimento Islamico di Resistenza) è una fazione palestinese di carattere politico-militare, considerata ufficialmente come terroristica da Unione Europea, Stati Uniti, Israele, Canada, Egitto e Giappone, ma non da Iran, Russia, Cina, Norvegia, Svizzera, Brasile, Turchia e Qatar.

Milizie di Hamas
Da più di 70 anni Israele è preparato a subire una tensione politica e militare, con violenze e lutti incessanti.
Questo nuovo focolaio bellico in Palestina, inizialmente deflagrato a Gerusalemme, ha rimesso in attività lo storico conflitto, dominando ogni spazio di informazione. In primis i social.
OPERAZIONE “GUARDIAN OF THE WALLS”
Di recente il governo di Benjamin Netanyahu ha lanciato l’Operazione “Guardian of the Walls” chiarendo, fin dai primi momenti e “apertis verbis”, che occorreranno giorni, o anche settimane per completare il raggiungimento di tutti gli obiettivi preposti dallo Stato Maggiore israeliano.

Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano
L’obiettivo è quello di ridurre il più possibile la capacità operativa bellica di Hamas e della Jihad islamica nella Striscia di Gaza, mirando in primis alla distruzione dei numerosi tunnel che a Gaza consenteno il movimenti delle munizioni e dei militanti di Hamas.
Mentre, al momento, non è prevista alcuna offensiva di terra.
In quest’ultimo caso il rischio reale è quello di impantanarsi in una lotta, casa per casa, con esiti incerti e molto più sanguinosi, come è accaduto nei violenti scontri del 2014.
Per quanto Hamas continui a razziare Israele, e per quanto Israele continui a bombardare la Striscia di Gaza, per ragioni tattiche e per argomentazioni storiche, tutto fa presagire che questa guerra non otterrà altro che un rapido ritorno allo “status quo ante bellum”.
LA STRATEGIA DI NETANYAHU
La strategia di Benjamin Netanyahu è asseritamente quella di dissuadere Hamas da ulteriori ostilità verso Israele per alcuni anni.
Attualmente, Israele non può avere altra scelta in un momento nel quale le sue città sono sotto attacco missilistico, ma appare un giudizio del tutto arbitrario decidere apoditticamente quanti palestinesi devono morire e quanti edifici devono essere fatti saltare in aria per far dire a Israele: con noi non si scherza.
Allo stesso modo, Hamas sa di non poter sconfiggere Israele.
I suoi lanci missilistici combinati aumentano la sua affermazione politica tra i palestinesi della Cisgiordania (dove Hamas ha perso le elezioni) a spese della vita e dei mezzi di sussistenza dei palestinesi della Striscia di Gaza, dove invece domina con l’ausilio del kalashnikov.
Paradossalmente, entrambe le parti potrebbero emergere dall’attuale guerra con maggiore ruolo e prestigio politico.
GLI OBIETTIVI POLITICI DI BIBI
Netanyahu raggiungerebbe il suo (vero) obiettivo: rimanere insediato e confermato nella sua carica come primo ministro, evitando una condanna per corruzione nel procedimento penale che ha in corso.
Ma non otterrà alcuna vittoria strategica più ampia e vantaggiosa per lo Stato d’Israele.
Coniugando la crisi di Gaza in termini machiavellici, Netanyahu potrebbe volere Hamas al controllo della Striscia di Gaza, conseguendo il proficuo vantaggio di essere liberato da qualsiasi obbligo di fare concessioni politiche e/o territoriali ai palestinesi.
Il che suonerebbe un anatema per i suoi partner della coalizione interna di destra alla Knesset (Parlamento israeliano).

Parlamento israeliano (Knesset)
Potrebbe semplicemente dire che si rifiuta di trattare con i terroristi, senza nulla aggiungere.
Una volta che le bombe e i razzi smetteranno di cadere, il governo israeliano avrà molto da affrontare con i suoi quasi 1,9 milioni di cittadini arabi (pari al 20% della popolazione).
Inoltre, Israele farebbe bene ad esaminare una serie di problematiche relative ai rapporti con gli arabi-israeliani. E sostenere, nel contempo l’ala moderata dell’Autorità palestinese come risposta a quella più radicale.
IL RUOLO DELLA DIPLOMAZIA
Com’era ovvio che accadesse, il conflitto di Gaza è avviato a concludersi, in attesa che la diplomazia internazionale esaurisca il suo compito.
Essa dovrà tenere conto dell’opportunismo manifestato da molti Stati che negli ultimi mesi hanno appoggiato strumentalmente Hamas: Bahrein, Emirati Arabi Uniti (EAU), Sudan e Marocco hanno normalizzato le relazioni economiche e diplomatiche con Israele.
L’Oman è già sulla strada giusta e l’Arabia Saudita ha compiuto passi senza precedenti nella stessa direzione.
Altri governi arabi mantengono importanti, anche se discreti, legami con Israele, e ulteriori passi verso la normalizzazione sembrano essere solo una questione di tempo.
L’Egitto e la Giordania sono in pace con Israele da decenni.
L’appello agli slogan riferiti all’antico (e storicamente fallito) “panarabismo” per un fronte unito contro Israele “dall’Oceano Atlantico al Golfo Persico” ha dato il via alla normalizzazione attraverso la stessa distesa.
Il ritmo e l’entità di questo cambiamento hanno minato la posizione araba comune, per altro riflessa nell’iniziativa di pace araba del 2002.
Piuttosto che insistere sullo slogan “terra per la pace” e offrire legami normalizzati solo in cambio di un completo ritiro israeliano alle linee del 1967, i governi arabi hanno dato la precedenza agli interessi personali: per il Marocco, il riconoscimento statunitense del suo controllo sul Sahara occidentale.
E Per il Sudan, la rimozione delle sanzioni statunitensi, per gli Emirati Arabi Uniti, l’accesso alle armi avanzate degli Stati Uniti.
Qualcuno dei buonisti, sinceri democratici, avanzano da sempre la soluzione del conflitto creando e accettando un solo stato per i due popoli.
Anche stavolta, la soluzione dei due Stati in uno è morta.
È giunto il momento per tutte le parti interessate di considerare invece l’unica alternativa con qualche possibilità di garantire una pace duratura: pari diritti per israeliani e palestinesi in due Stati riconosciuti da entrambi, sotto l’egida ed il controllo delle Nazioni Unite.
LE POSIZIONI DEGLI STATI UNITI
Fin dall’inizio delle ostilità, Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti, è stato chiaro:
“Israele ha il diritto di difendersi” e spera che i combattimenti siano finiti “il prima possibile”, egli ha detto.

Il Presidente americano Joe Biden
Separatamente, il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha annunciato di essere in contatto con il suo omologo israeliano e con il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
Ha anche detto che stava inviando Hady Amr, un esperto funzionario di medio livello, in Israele per entrare in contatto con le parti.
Hamas continua sulla sua strada con l’assistenza della jihad islamica palestinese sostenuta dall’Iran, continua a sparare, indiscriminatamente, i suoi razzi verso le città israeliane.
Qatar ed Egitto mediano anch’essi un cessate il fuoco basato sul solito accordo “sei tranquillo in cambio di tranquillità”.
Entrambe le parti seppelliscono i loro morti, liberano le macerie e tornano al lavoro come al solito mentre le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e le Brigate militarizzate “Ezzedeen al-Qassam” di Hamas seguono a contare le proprie vittime.

Benjamin Netanyahu, in un incontro con le Forze Armate israeliane
Biden non ha nascosto di avere altre importanti priorità: la pandemia, la ripresa economica, il cambiamento climatico, l’ascesa della Cina, le ambizioni nucleari dell’Iran.
In altre parole, gli istinti di base dell’amministrazione Biden sono corretti.
Il conflitto a Gaza richiede una gestione civile e non militare, perché semplicemente non esistono le condizioni per la sua risoluzione.
Non si tratta di creare una priorità ma di riconoscere una realtà.
LE AMBIZIONI DI HAMAS
Hamas è rimasto indebolito e turbato dal proprio insuccesso nelle più recenti elezioni palestinesi, tramite le quali sperava di estendere la sua influenza alla Cisgiordania.
Così ha sparato razzi verso Gerusalemme. Che, a sua volta, ha fatto infuriare Netanyahu, il quale ha incrementato gli interventi militari a Gaza, ma non in Cisgiordania, e certamente non a Gerusalemme est.
La terza parte di questo conflitto è rappresentata da Abu Mazen (Presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dell’Autorità Nazionale Palestinese e dello Stato di Palestina) il quale vorrebbe vedere nuovamente coinvolti gli Stati Uniti: ciò lo renderebbe di nuovo rilevante in un ambito decisionale internazionale.

Abu Mazen
A 85 anni, nel 17° anno del suo mandato presidenziale (quadriennale), è alla guida di una politica profondamente divisa in cui rischia di essere denunciato come traditore da Hamas per qualsiasi concessione che farà a Israele.
Abu Mazen aspira ad entrare nei libri di storia come il leader che si è rifiutato di compromettere i diritti dei palestinesi.
CI SONO PROSPETTIVE DI UNA TREGUA?
Hamas ha collegato ogni cessazione delle ostilità al ritiro delle Forze israeliane dall’Spienta delle Moschee, mentre Israele condiziona la tregua per garantire la sicurezza alla sua popolazione.
Nessuno dei tentativi di mediazione, da parte di Egitto, Qatar o Nazioni Unite, è riuscito finora.
La riluttanza dell’amministrazione statunitense di Joe Biden ha finora frenato l’adozione di una risoluzione nel Consiglio di sicurezza dell’ONU.
QUALI SONO LE OPZIONI ISRAELIANE ANCORA APERTE?
L’Esercito israeliano mantiene elevate le sue operazioni da terra con l’artiglieria e dall’aria contro le infrastrutture delle milizie di Hamas e della Jihad islamica.
L’obiettivo principale dell’attacco coordinato è la distruzione di gran parte della rete di tunnel interni, composta da chilometri di passaggi, attraverso i quali i combattenti di Hamas si recano verso le piattaforme di lancio dei razzi e le postazioni di attacco in prossimità della linea di demarcazione con Israele.
Al momento, i soldati israeliani non sono entrati nella Striscia.
E’ notizia di queste ultime ora il forte progetto di risoluzione della Francia, coordinato con Egitto e Giordania, sugli Stati Uniti e sul Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, affinché si raggiunga un duraturo cessate il fuoco, e che si concentrino gli sforzi sugli obiettivi più urgenti: la cessazione della violenza e la libertà di accesso alle agenzie umanitarie accreditate nel territorio di Gaza.
Finora, Washington ha ripetutamente bloccato gli sforzi davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per redigere dichiarazioni congiunte con la richiesta della fine dei combattimenti.
Tuttavia, stanno emergendo segnali che un cessate il fuoco potrebbe essere in arrivo con la pressione politica egiziana sulle fazioni di Hamas.
Anche la Giordania ha esercitato forti sollecitazioni per la cessazione della violenza, unendosi all’azione francese all’ONU affinché sia presentato un progetto che fornisca gli aiuti umanitari più urgenti alla stremata popolazione di Gaza.
Prima dell’ultimo incontro delle Nazioni Unite, Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale del Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha detto che Washington era impegnata in una “diplomazia silenziosa e intensa”.
In ultimo , è entrata in azione anche la diplomazia pontificia, ben nota per la sua abilità e riserbo.
Sono in molti a ritenere che questa darà un contributo decisivo alla soluzione definitiva della crisi.
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