Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Le recenti proteste popolari in Iran e la repressione sistematica a Gaza mettono in luce un nuovo paradigma di conflitto: una guerra asimmetrica non più condotta tra Stati, ma tra regimi autoritari e le proprie società civili (in questo video immagini di proteste in Iran (https://www.instagram.com/reel/DGNZ5LtIFIW/?igsh=MXJ5ZDJ5enJzbzBtdw==)
In questo scenario, la sofferenza dei cittadini non è solo un effetto collaterale, ma uno strumento deliberato di potere, parte di una strategia globale volta a disgregare l’ordine internazionale liberale e a indebolire la coesione democratica.
A Teheran, le rivolte contro i Pasdaran sono l’epifenomeno di una società civile che, pur repressa, non ha smesso di esprimere la propria sete di libertà.

In particolare, le donne iraniane – con la protesta del velo – si sono fatte protagoniste di una rivoluzione simbolica che scardina il nucleo ideologico del regime: il controllo religioso sul corpo e sulla libertà femminile. In un contesto dove il dissenso è pericoloso, ogni atto di ribellione diventa un gesto politico radicale.

La sfida al potere, dunque, non passa più solo per le armi, ma per la riappropriazione dell’identità e della dignità.
A Gaza, invece, si assiste a una forma ancora più brutale di repressione.
Hamas, riconosciuto come organizzazione terroristica dal diritto internazionale, ha trasformato la fame in un’arma di dominio.

Secondo fonti umanitarie indipendenti, il movimento ostacola l’accesso della popolazione agli aiuti, localizzando le proprie postazioni militari vicino agli hub di distribuzione.
Così facendo, espone deliberatamente i civili al rischio di rappresaglie, strumentalizzando ogni vittima per alimentare la narrativa della colpa altrui. È una strategia psicologica che converte la popolazione civile in scudo umano e leva diplomatica.
Questi esempi non sono isolati.
Rientrano in quella che potremmo definire una “Nuova Guerra”: un conflitto ibrido, trasversale e sistemico, dove l’obiettivo non è la conquista territoriale, bensì la disintegrazione delle società aperte.
Regimi come quello iraniano e attori non statali come Hamas non mirano più solo alla sopravvivenza politica, ma a una vera e propria erosione dei pilastri dell’ordine internazionale: verità, legalità, umanitarismo.
Le armi di questo conflitto sono meno visibili ma più insidiose: il controllo dell’informazione, l’uso strategico della sofferenza civile, la manipolazione delle narrazioni vittima-carnefice, l’attacco simbolico alla legittimità delle democrazie. È una guerra del caos, dell’ambiguità, della disinformazione.
In questo scenario, la vittima non è solo la popolazione oppressa, ma anche il senso stesso di giustizia e responsabilità collettiva.
La risposta delle democrazie non può essere episodica né solo militare.
Occorre una strategia sistemica che si fondi su un sostegno attivo alla società civile, sulla difesa degli spazi umanitari e sulla ridefinizione della responsabilità internazionale. Gaza e Teheran non sono semplici focolai locali.
Sono specchi deformanti che riflettono la fragilità dell’ordine globale.
Il vero banco di prova, oggi, è la capacità dell’Occidente di contrastare non solo la forza bruta, ma l’erosione lenta e pervasiva dell’etica liberale su cui si fondano pace, giustizia e convivenza internazionale.
In un’epoca in cui le autocrazie perfezionano l’arte della destabilizzazione e della manipolazione, difendere la libertà significa anche saper leggere i nuovi volti della guerra e agire prima che l’entropia diventi sistema.
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