Medio-Oriente: il punto sul “fronte yemenita”

Di Fabrizio Scarinci

TEL AVIV. Secondo quanto si è avuto modo di osservare nel corso delle ultime settimane e, in modo particolare, nel corso degli ultimi giorni, la regione mediorientale, già dal 7 ottobre alle prese con il conflitto che vede lo Stato d’Israele contrapporsi ad Hamas e ad alcuni dei suoi più stretti alleati, sembrerebbe essere precipitata in una fase ancor più turbolenta, caratterizzata, tra le altre cose, dalla definitiva apertura di nuovi fronti caldi.

Militari israeliani impegnati all’interno della Striscia di Gaza

Uno di questi è, senz’altro, costituito da quello yemenita, che, la notte tra l’11 e il 12 gennaio, ha visto gli USA e il Regno Unito lanciare una campagna di raid relativamente intensa contro le milizie Houti, responsabili di numerosi attacchi alle navi transitanti a ridosso del territorio da essi controllato.

Lancio di un Tomahawk contro le postazioni Houthi da parte di un cacciatorpediniere statunitense

Gli Houti e il loro arsenale

Gradualmente affermatosi come uno dei maggiori “proxies” di Teheran nella regione mediorientale, il movimento sciita zaydita degli Houthi, armato fin dal 2004, detiene da tempo il controllo di ampie porzioni dello Yemen nord-occidentale, nonché della stessa capitale Sanaa, definitivamente occupata all’inizio del 2015 in conseguenza della grande rivolta innescata alcuni mesi prima dai suoi miliziani contro il governo del Paese.

Miliziani Houthi ripresi nel 2015

Stimata, qualche anno fa, in circa 100/120.000 uomini, la forza combattente degli Houthi è arrivata, nel corso del tempo, a disporre di un nutrito arsenale di missili e droni ricevuto per lo più dagli iraniani al fine di resistere alle varie iniziative militari che, a partire da qual momento, i sauditi e i loro alleati regionali avrebbero intrapreso al fine reprimere (o, quantomeno, ridimensionare) l’azione politico-militare del movimento all’interno dello Yemen.

Un Tornado IDS della Royal Saudi Air Force. Molti di questi velivoli hanno preso parte, nel corso degli ultimi anni alle operazioni contro gli Houthi

In particolare, stando a quanto riportato da varie fonti, tra le numerose tipologie di missili in dotazione alle forze Houthi vi sarebbero vettori balistici quali Typhoon (caratterizzati da un raggio d’azione di 1.600/1.900 km) e Shabab-3 (presenti in diverse varianti con gittate fino a 2.000 km), varie tipologie di missili da crociera (incluse, a quanto pare, alcune versioni dell’iraniano Sumar), droni di tipo Qasef, Shahed-136, Waeed-2 e Samad (sistema prodotto, a quanto pare, autonomamente con l’aiuto di Teheran) e ingenti quantitativi di missili antinave con cui “sfruttare appieno” la formidabile posizione strategica del territorio da essi controllato a ridosso dello Stretto di Bab al-Mandab, tra cui figurerebbero l’ex sovietico STYX e il cinese C-801 (presi, a quanto pare, alle forze regolari yemenite), il più avanzato C-802 (sempre di origine cinese), e almeno un paio di varianti del Quds/351 prodotto in Iran.

Un drone kamikaze Shahed-136

Prospettive per il fronte yemenita

Dopo aver impiegato per anni il loro arsenale contro sauditi ed emiratini, nel corso degli ultimi mesi gli Houthi hanno cercato più volte di colpire il territorio dello Stato d’Israele (forse anche al fine di testare le sue difese per conto dell’Iran) e di bloccare (con decine di attacchi documentati sin dalle prime settimane di guerra) il transito di navi commerciali tra Oceano Indiano e Mar Rosso.

Come noto, i loro tentativi di colpire il territorio dello Stato Ebraico si sono tutti risolti in penosi fallimenti, con i sistemi Arrow e gli F-35 che si sono rivelati in grado di intercettare praticamente tutti i missili balistici, i cruise e i droni kamikaze da essi lanciati.

F-35I Adir in dotazione all’IDF

Un discorso molto diverso bisogna, invece, fare per il loro tentativo di bloccare le rotte commerciali, dato che, sebbene i loro missili siano stati quasi tutti abbattuti anche in quel frangente (soprattutto ad opera dei cacciatorpediniere statunitensi presenti nell’area), essi sembrerebbero aver fatto in modo che la maggior parte delle compagnie di navigazione optasse (con tutti i rischi del caso sui prezzi di energia e materie prime) per la circumnavigazione dell’Africa anziché per il passaggio attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez.

Lo scopo di queste ultime azioni, che mirano chiaramente a mettere in difficoltà il sistema economico globale fondato sul controllo dei mari da parte degli USA e dei loro alleati è, verosimilmente, quello di accrescere il proprio peso politico nell’ambito del sistema di alleanze guidato dall’Iran facendo leva su una posizione geografica di assoluto rilievo.

Tali azioni hanno, però, finito per provocare la reazione militare di Washington, che, pur essendo poco incline ad intraprendere operazioni militari troppo impegnative in Medio-Oriente (almeno in questa difficile fase caratterizzata dal conflitto ucraino e dal costante aumento del livello di tensione nella regione dell’Indopacifico), non avrebbe mai potuto tollerare una minaccia così impattante.

Nave battente bandiera delle Isole Marshall danneggiata da un attacco degli Houti nelle acque del Mar Rosso

L’eventualità che gli USA rimettano i cosiddetti “boots on the ground” in Medio-Oriente resta, però, deciamente remota e, forse, è proprio facendo leva su questo che gli Houti contano di poterli mettere in difficoltà ed incidere sulle dinamiche dell’area.

Certo, è anche vero che, pur senza “impegnarsi troppo” gli USA potrebbero comunque tentare di ottenere qualche effetto concreto continuando con gli attacchi di precisione e bloccando i porti yemeniti posti sotto il loro controllo.

Tale scelta implicherebbe, però, il mantenimento di almeno un Carrier BattleGroup nell’area per un tempo indefinito, anche perché nessuna iniziativa analoga da parte europea potrebbe raggiungere lo stesso livello di efficacia.

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