Di Fabrizio Scarinci
TEL AVIV. A più di due settimane dal feroce attacco di Hamas sul suolo israeliano, l’ingresso delle forze terrestri di Tel Aviv all’interno della Striscia di Gaza, che in molti si aspettavano fin dai primi giorni di guerra, non solo non ha ancora avuto luogo ma sarebbe addirittura stato rinviato.

Carri armati Merkava a ridosso del confine tra Israele e Striscia di Gaza
Dietro questa “cautela” sembrerebbero esserci non solo ragioni di carattere militare, come la necessità di addestrare i riservisti, ma anche ragioni di carattere diplomatico, legate, in parte, alla volontà di evitare il massacro degli oltre 200 ostaggi rapiti il 7 ottobre scorso (molti dei quali in possesso di doppio passaporto) e, in parte, alla necessità di contenere, anche attraverso una maggiore attenzione verso i bisogni primari della popolazione palestinese, i non pochi danni che il conflitto in corso potrebbe arrecare agli interessi dell’Occidente (e, ovviamente, dello stesso Israele) nella regione mediorientale.
Con riferimento a quest’ultimo punto, ciò che preoccupa maggiormente è, ovviamente, la possibilità che i governi arabi più vicini allo Stato Ebraico (o comunque intenzionati a “normalizzare” le proprie relazioni con esso) scelgano di tornare ad un atteggiamento maggiormente ostile nei confronti di Tel Aviv al fine di non inimicarsi le loro opinioni pubbliche interne, da sempre anti-israeliane e già piuttosto contrariate per via dei raid che l’IDF sta portando avanti sul territorio della Striscia.
A trarre i maggiori vantaggi da un eventuale cambio di rotta dei Paesi arabi in materia di relazioni con Israele sarebbe, ovviamente, il governo iraniano, storico protettore di Hamas interessato da tempo a sabotare la formazione di un blocco politico regionale alleato degli USA che dovrebbe includere tanto Israele quanto Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti; tre importantissimi attori del mondo arabo intenzionati a contenere le mire egemoniche di Teheran nonostante siano in procinto di entrare insieme ad essa nel “raggruppamento” dei cosiddetti BRICS.

Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica Islamica d’Iran
Anche in virtù di quanto appena detto, non sono pochi gli osservatori che sospettano una qualche forma di coinvolgimento dell’Iran nell’ambito del recente attacco di Hamas, con il quale il regime degli Ayatollah si sarebbe, peraltro, più volte complimentato per il “successo” ottenuto nel corso dell’operazione.
Dal momento dell’attacco, Teheran ha, poi, cercato di fare tutto quanto in suo potere al fine di schermare il suo piccolo ma importante alleato, dipingendolo come il legittimo rappresentate delle istanze palestinesi e minacciando più volte il proprio intervento diretto nel conflitto nel caso in cui le forze terrestri di Tel Aviv avessero varcato i confini della Striscia.
Nello specifico, il regime degli Ayatollah (che comunque non avrebbe alcuna possibilità di impedire l’azione israeliana) sarebbe arrivato a minacciare attacchi missilistici sulle maggiori città dello Stato Ebraico, che, in effetti, potrebbero teoricamente essere raggiunte anche dallo stesso territorio della Repubblica Islamica mediante l’utilizzo di alcuni dei vettori balistici di tipo MRBM in dotazione alla Forza Aerospaziale dei Pasdaran (come, ad esempio, gli Shahab-3B e i Ghadr-110) e di alcune varianti del missile da crociera “Soumar “.

Il lancio di un missile balistico Shahab-3 di fabbricazione iraniana
Altri attacchi potrebbero, inoltre, essere lanciati dai territori di Iraq e Siria, dove Teheran mantiene una forte presenza militare e gode della fedeltà di varie milizie locali, che, stando a quanto riportato dal “Times of Israel”, avrebbero già colpito più volte le installazioni militari statunitensi presenti in territorio siriano mediante l’utilizzo di droni.
A queste forze andrebbero, poi, sommate quelle di Hezbollah presenti nel Libano meridionale (notoriamente in possesso di enormi quantitativi di armi a corto raggio e attive nel bersagliare il nord di Israele fin dal 7 ottobre scorso) e, forse, anche alcuni segmenti delle forze missilistiche a diposizione dei ribelli Houti dello Yemen (anche se, in questo caso, sussistono seri dubbi sul fatto che essi siano effettivamente in grado di raggiungere il territorio di Israele).
In ogni caso, però, qualora l’Iran e suoi alleati decidessero di lanciare un massiccio attacco missilistico, dovrebbero vedersela non solo con i sofisticatissimi sistemi di difesa Iron Dome, David’s Sling e Arrow, ma anche con le temibili capacità di rappresaglia dell’IAF e delle forze aeronavali che Washington ha recentemente deciso di rischierare nell’area compresa tra Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico proprio al fine di evitare che qualche nemico di Israele possa approfittare della temporanea situazione di caos generatasi in conseguenza dell’attacco di Hamas.

La portaerei nucleare statunitense USS Dwight D. Eisenhower. Anche questa unità sarebbe stata rischierata in Medio-Oriente al fine di gestire la crisi causata dell’attacco di Hamas
In ragione di questo rischio è, quindi, lecito ritenere che, alla fine, Teheran possa comunque scegliere di non compiere il passo più lungo della gamba e di mantenere lo scontro al di sotto del livello di guardia, evitando di esporsi in maniera troppo diretta e delegando soprattutto ad Hezbollah e ad altre milizie della regione il compito di esercitare qualche forma di “pressione” in più su Tel Aviv una volta che le sue truppe avranno varcato i confini di Gaza; cosa che, com’è facile immaginare, dovrebbe comunque avere luogo non appena i vertici israeliani riusciranno a definire i propri obiettivi in maniera tale da ottenere le migliori condizioni possibili sul piano diplomatico.
Quanto consenso Tel Aviv possa, poi, effettivamente sperare di ottenere da parte dei suoi vicini arabi con riferimento al rovesciamento del governo stabilito da Hamas all’interno della Striscia, al momento, non è ancora dato saperlo.
Così come non dato sapere quanto appoggio possa ottenere dallo stesso governo statunitense, che, a quanto pare, avrebbe già iniziato a preoccuparsi per le problematiche connesse ad un eventuale dopo-Hamas.
Nondimeno, non è affatto detto che, in tale situazione, Israele non abbia tra le mani qualche interessante carta da giocare, dato che, quantunque il suo ingresso a Gaza possa mettere i governanti dei Paesi arabi in una situazione di imbarazzo nei confronti delle loro opinioni pubbliche, bisogna anche considerare come l’ipotetico rovesciamento del governo di Hamas potrebbe effettivamente assestare un durissimo colpo alla capacità di Teheran di trarre vantaggio dalla causa palestinese; cosa che contribuirebbe a ridurre la sua influenza in seno al mondo islamico e a spalancare le porte a scenari verosimilmente più favorevoli sia per i sauditi (che, malgrado i tentativi di Pechino di farli riavvicinare agli iraniani, restano comunque in competizione con la Repubblica Islamica per l’egemonia nel Golfo), sia per gli egiziani (che, tra le altre cose, non hanno mai amato Hamas anche in ragione della sua originaria connessione con la Fratellanza Musulmana).
Un discorso a parte dovrebbe, poi, essere fatto per i turchi, anch’essi non proprio amici degli iraniani ma, allo stesso tempo, vicini ai Fratelli Musulmani e schierati da ormai diversi anni su posizioni decisamente anti-israeliane.
Com’è facile immaginare, nelle attuali circostanze un’eventuale crollo del governo stabilito da Hamas nella Striscia di Gaza costituirebbe un fastidio non da poco anche per loro e per le ambizioni “simil-imperiali” da essi coltivate nel corso degli ultimi anni.
Cionondimeno, non diversamente da quanto accade con Teheran, al momento anche Ankara sembrerebbe essere fondamentalmente impotente di fronte ad un’eventuale presa della Striscia da parte di Tel Aviv, contro la quale potrà verosimilmente agire solamente a livello politico e diplomatico.
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