Medio Oriente: l’antisemitismo come “arma geopolitica”. Un’analisi storica, religiosa e sociale su un fenomeno che parte da lontano

Di Bruno Di Gioacchino

TEL AVIV. Per comprendere appieno la dimensione geopolitica dell’antisemitismo contemporaneo, è necessario collocarlo in una cornice storica di lunga durata.

Dall’antisemitismo teologico pre-moderno, all’antisemitismo politico e razziale dei secoli XIX e XX, fino alla sua attuale mutazione strategica, si assiste oggi a un fenomeno che ha smesso di essere soltanto un pregiudizio culturale o religioso, per diventare una leva strutturale nel conflitto tra regimi autoritari e democrazie liberali.

Un gruppo di bambini sopravvissuti dietro il filo spinato del campo di
concentramento tedesco Auschwitz-Birkenau il giorno della liberazione del
campo da parte dell’Armata Rossa, 27 gennaio 1945. La foto è stata scattata
dal fotografo dell’Armata Rossa, Capitano Aleksander Worontsov durante le
riprese del film sulla liberazione del campo

 

L’antisemitismo non è più soltanto ideologia: è uno strumento tattico, una tecnologia del disordine, una retorica adattabile e transnazionale che si insinua nei nodi fragili delle società aperte.

Dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, Israele è entrato in una nuova e drammatica fase bellica nella Striscia di Gaza.

Miliziani di Hamas entrano in territorio israeliano il 7 ottobre 2023

Ma mentre i razzi colpivano il territorio israeliano, un altro fronte si apriva nelle metropoli globali, nei campus universitari occidentali, nei social media: la riesplosione dell’antisemitismo.

Le manifestazioni sono state molteplici: vandalismi contro luoghi di culto ebraici, boicottaggi simbolici, slogan apertamente antisemiti durante le manifestazioni pubbliche, minacce fisiche, rimozione della parola “ebreo” da identità digitali per timore di ripercussioni.

Il fenomeno si è intensificato in particolare negli spazi educativi e culturali, dove spesso si presumeva che il pluralismo fosse una garanzia contro la discriminazione.

Secondo il rapporto della Harvard Task Force on Antisemitism, l’Università è divenuta un campo di battaglia simbolico, in cui lo studente ebreo non è più percepito come individuo ma come incarnazione collettiva della “colpa israeliana”.

Pubbliche umiliazioni, appelli alla “dissociazione identitaria” dal proprio popolo, e richieste di abiura ideologica sono diventati strumenti ordinari di pressione sociale, fino a configurare una forma di discriminazione che si alimenta del linguaggio dell’inclusione per produrre esclusione.

La stigmatizzazione non si limita all’opinione politica ma si estende all’appartenenza etnico-religiosa, trattata come una colpa da espiare pubblicamente.

In questo contesto, grandi potenze come Iran, Russia e Turchia hanno adottato un linguaggio antisionista che va ben oltre la critica politica a Israele.

L’antisemitismo, celato sotto l’apparente legittimità della causa palestinese, diventa un dispositivo geopolitico.

Teheran ne fa uso sistematico attraverso Hezbollah, Hamas e una rete globale di propaganda digitale, per minare la coesione interna delle democrazie, alimentare le fratture etniche e culturali al loro interno, presentarsi come paladino degli “oppressi” e, nel frattempo, consolidare la propria egemonia ideologica nel mondo islamico.

Militanti di Hezbollah marciano sulle bandiere di Israele

Anche la Turchia, pur essendo formalmente alleata dell’Occidente, adotta spesso un linguaggio ambivalente che flirta con l’antisemitismo per rafforzare la propria leadership nel mondo musulmano sunnita.

Si tratta di un’operazione asimmetrica, tipica delle nuove forme di guerra non convenzionale: delegittimare i valori fondanti delle società aperte, facendoli apparire come ipocrisie al servizio di un potere ebraico-occidentale da smascherare.

Questa narrazione consente alle autocrazie di attaccare la credibilità democratica non attraverso il confronto militare, ma sfruttando le stesse libertà delle democrazie – stampa libera, pluralismo, social media – per inoculare il dubbio e disgregare il consenso.

Paradossalmente, le stesse democrazie diventano terreno fertile per l’espansione dell’antisemitismo strategico.

Nelle Università, nei movimenti postcoloniali, in parte del mondo accademico e mediatico, si assiste a un cortocircuito ideologico: Israele viene rappresentato come ultimo baluardo del colonialismo bianco, l’ebraismo come appendice del capitalismo globalizzato.

Una manifestazione di palestinesi

 

L’ebraismo – religione dell’esilio, identità diasporica per eccellenza – viene sovrapposto a strutture di dominio storicamente occidentali, in una forzatura concettuale che scardina ogni riferimento storico concreto.

Questo produce uno slittamento semantico profondo.

L’antisemitismo non parla più il linguaggio dell’odio razziale ma quello della giustizia sociale, della resistenza anticoloniale.

Il risultato è una razzializzazione invertita: l’ebreo non è discriminato in nome della sua inferiorità, ma della sua presunta superiorità morale, politica, economica.

L’ebreo è visto come figura integrata nel potere, e in quanto tale, da denunciare.

Si tratta di un capovolgimento che consente di rilanciare vecchi stereotipi con nuova legittimità, travestiti da attivismo.

Il nuovo antisemitismo è quindi sintomo e strumento della crisi delle democrazie liberali.

Non si limita a colpire i cittadini ebrei: erode la tenuta del patto costituzionale.

Quando la legittimità di un’intera identità collettiva viene posta sotto accusa nei luoghi simbolici del pluralismo – Università, media, cultura – ciò che vacilla è la promessa stessa di uguaglianza che fonda lo Stato di diritto.

A Milano gruppi filo palestinesi contestano i combattenti della Brigata Ebraica

Si assiste a una torsione autoritaria della sfera democratica, nella quale alcuni gruppi possono essere marginalizzati non per quello che fanno, ma per quello che sono.

Le autocrazie sanno perfettamente come sfruttare questa fragilità: amplificano il dissenso interno, legittimano la repressione nei propri territori mostrando il caos dell’Occidente, e creano narrazioni che polarizzano le opinioni pubbliche democratiche fino a renderle ingovernabili.

La Russia di Vladimir Putin, nella sua restaurazione ideologica, ha ereditato e trasformato le retoriche antisemite dell’impero zarista e dell’URSS.

Il Presidente russo, Vladimir Putin

 

La criminalizzazione del cosmopolitismo, la diffusione di narrazioni complottiste sul potere ebraico, il ricorso a falsi documenti e disinformazione (come i “Protocolli dei Savi di Sion”) sono oggi veicolati attraverso troll farm, reti informatiche e canali mediatici che inondano il discorso pubblico occidentale di ambiguità e odio.

L’ebreo come “nemico interno” ritorna nella propaganda come figura utile a spiegare ogni crisi: economica, migratoria, culturale.

In questo senso, l’antisemitismo digitale è la nuova frontiera della disinformazione strategica. E quello contemporaneo, dunque, è una leva geopolitica.

Non è un residuo del passato, ma una tecnologia del conflitto, utilizzata per dividere le democrazie, creare nemici interni, giustificare politiche repressive e legittimare guerre per procura.

Non è più confinato a gruppi marginali o frange estremiste: attraversa istituzioni, media, accademie, movimenti sociali, piattaforme digitali.

È una rete fluida, non un’ideologia statica. Funziona attraverso la diffusione di immagini, slogan, gesti, riferimenti impliciti più che dichiarazioni esplicite. Ed è proprio questa ambiguità a renderlo più pervasivo.

La risposta delle democrazie è, al momento, frammentata.

Gli strumenti legislativi sono spesso inadeguati, la diplomazia è timida, le piattaforme digitali oscillano tra censura selettiva e tolleranza passiva, e l’educazione civica appare insufficiente a fornire gli anticorpi culturali necessari.

Senza una strategia integrata, che connetta sicurezza, educazione, regolazione digitale, media literacy e politiche internazionali, l’antisemitismo continuerà ad agire come una forza corrosiva che indebolisce la resilienza delle società aperte.

L’antisemitismo contemporaneo rappresenta uno dei fronti principali della nuova guerra tra autocrazie e democrazie.

È un fenomeno profondamente strategico, che agisce da dentro le democrazie per logorarle, dividere le loro opinioni pubbliche, incrinare il patto costituzionale.

Capirlo non è solo un dovere morale, ma una necessità di sicurezza collettiva.

Difendere l’integrità, la libertà e la dignità dei cittadini ebrei equivale oggi a difendere le fondamenta stesse della civiltà democratica.

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