Medio Oriente: nel discorso alla Knesset di Donald Trump emergono gli aspetti fondamentali della strategia statunitense nell’area e nello scacchiere dell’Oceano Indiano

Di Fabrizio Scarinci

TEL AVIV. Il Medio Oriente potrebbe presto entrare in una nuova era.

Una nuova età dell'”oro” resa possibile dai notevoli successi militari ottenuti da Israele contro i propri nemici e dal rafforzamento degli accordi di Abramo.

È più o meno questo, riassunto in poche parole, il senso del discorso che il Presidente statunitense Donald Trump ha tenuto alla Knesset nel corso della mattinata di oggi, più o meno in concomitanza con il rilascio degli ultimi ostaggi ancora in vita nelle mani di Hamas.

Il Presidente statunitense Donald Trump durante il suo discorso di oggi alla Knesset

Un discorso piuttosto lungo (circa 65 minuti) in cui il Capo della Casa Bianca non ha mancato di ricordare la drammaticità dei fatti del 7 ottobre 2023 e di evidenziare l’importanza del legame tra USA e Israele.

Un legame che, durante gli ultimi due anni, si sarebbe tradotto non solo in ingenti quantitativi di rifornimenti, ma anche in importanti azioni militari di supporto.

A tal proposito, il tycoon ha ricordato, tra le altre cose, anche l’Operazione “Midnight Hammer”, condotta nel giugno scorso dai bombardieri B-2 Spirit dell’USAF al fine di colpire il programma nucleare iraniano (anche se, a dire il vero, secondo numerose fonti il forte ritardo con cui Washington avrebbe deciso di intervenire nell’ambito di tale conflitto avrebbe, di fatto, consentito a Teheran di mettere al sicuro buona parte del proprio uranio).

Il Presidente Trump con Benjamin Netanyahu

Donald Trump ha quindi chiarito come, a suo modo di vedere le cose, gli importanti successi militari di Israele (che per lui costituiscono uno straordinario esempio di “peace through strength”) debbano ora essere trasformati in pace e prosperità per tutto il Medio Oriente.

Anche per tale ragione il tycoon non ha fatto mancare un importante passaggio su Gaza e sui suoi abitanti, a cui, stando alle sue parole, dovrebbero essere forniti i necessari fondamenti di stabilità, sicurezza, dignità e sviluppo economico. Una tematica notoriamente spigolosa, riguardo alla quale non è ancora del tutto che chiaro quanto le esigenze di Tel Aviv possano davvero collimare con la più ampia visione strategica di Washington.

Al momento è previsto che l’implementazione del “Piano Trump” (con cui, comunque, non ci si propone certo di favorire la nascita di uno Stato palestinese contro la volontà di Israele) venga affidata ad una forza di sicurezza internazionale composta per lo più da Paesi arabo-islamici.

Paesi con cui, nel suo discorso, il tycoon ha dichiarato di voler costruire un’eredità di cui tutti gli abitanti della regione possano essere orgogliosi.

“Ora – queste le parole di Donald Trump – costruiremo un futuro degno della nostra eredità. Costruiremo un’eredità di cui tutti gli abitanti di questa regione potranno essere orgogliosi. Nuovi legami di amicizia, cooperazione e commercio uniranno Tel Aviv a Dubai, Haifa a Beirut, Gerusalemme a Damasco, andranno da Israele all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Qatar, dall’India al Pakistan, dall’Indonesia all’Iraq, dalla Siria al Bahrein, dalla Turchia alla Giordania, dagli Emirati Arabi Uniti all’Oman e dall’Armenia all’Azerbaijan».

Ma non solo, perché il Presidente è tornato ad accennare un’apertura anche nei confronti dello stesso Iran, sottolineando come le nazioni produttive e responsabili della regione non dovrebbero essere nemiche o avversarie, ma partner e, alla fine, persino amiche.

Un momento della visita odierna

In generale, tale passaggio sembrerebbe testimoniare come gli USA potrebbero ambire, almeno nel medio-lungo termine, non solo alla formazione dell’ormai arcinoto blocco “filo-occidentale” costituito da Israele e monarchie del Golfo, ma anche ad un più ampio processo di stabilizzazione dell’area, che, oltre a consentire il dispiegamento di maggiori risorse militari nel Pacifico, permetterebbe a Washington di rispondere con efficacia alla sempre più radicata influenza cinese in Medio Oriente e nell’area dell’Oceano Indiano.

A tal proposito, non è, forse, un caso il fatto che, tra i Paesi menzionati figurino anche l’Indonesia, potenza indopacifica emergente che ha, finora, cercato di mantenere una posizione equidistante tra Washington e Pechino, e i due eterni rivali dell’Asia meridionale India e Pakistan.

Come noto, tra questi ultimi il tycoon ha già avuto modo di mediare un cessate il fuoco in primavera nell’ottica di allontanare entrambi, e, in particolar modo l’India, potenza di enorme rilievo e, già di per sé, caratterizzata da interessi convergenti con quelli statunitensi, dalla Repubblica Popolare, anche se, in effetti, almeno per il momento tale proposito sembrerebbe essersi temporaneamente arenato in ragione della scelta della stessa Amministrazione Trump di applicare dazi particolarmente elevati nei confronti di Nuova Delhi al fine di indurla ad interrompere le proprie relazioni commerciali con la Russia di Vladimir Putin.

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