PISA. Il Prof. Arturo Marzano si è laureato in Scienze politiche nell’Università di Pisa e ha conseguito il perfezionamento in Storia contemporanea presso la Scuola Superiore Sant’Anna sempre a Pisa nel 2000, dopo esserne stato anche allievo ordinario tra il 1991 e il 1995.
È stato assegnista di ricerca alla Scuola Superiore Sant’Anna e all’Università di Pisa, Post-Doc all’International Institute for Holocaust Research – Yad Vashem, Senior Research Fellow all’Université Panthéon-Assas (Paris 2), Marie Curie Fellow all’Istituto Universitario Europeo di Firenze e visiting Researcher alla Hebrew University di Gerusalemme e all’American University di Beirut.
Ha lavorato nella cooperazione internazionale nei Balcani e in Medio Oriente, soprattutto in Israele/Palestina.
È diventato ricercatore in Storia e Istituzioni dell’Asia nel 2014 ed è professore associato, in detta disciplina, sempre presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, dal 2017.
I suoi temi di ricerca vertono sulla storia internazionale del Novecento.
Si occupa in particolare di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente.
È autore di nove volumi tra monografie e curatele, e di oltre 50 articoli pubblicati in libri collettanei e riviste scientifiche in Italia e all’estero.
Insegna “Storia delle relazioni internazionali”, “Storia del Vicino Oriente” e “History of the Arab-Israeli conflict” nei corsi di laurea triennale e magistrale di Storia e Scienze per la Pace.
E’ stato coordinatore di Area per l’Internazionalizzazione (CAI) del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere tra il 2014 e il 2018, e attualmente è coordinatore accademico del Foundation Course in Humanities (FCH), attivato presso l’Ateneo.
Report Difesa lo ha intervistato sul conflitto tra Israele e Hamas e sulla situazione medio orientale.
Professore, ritiene plausibile, ad oggi, la soluzione “due popoli – due Stati”? E se si, come si può raggiungere quest’obiettivo?
Personalmente non credo sia più possibile. Non sono solo io a dirlo ma anche diversi altri studiosi ed esperti in materia.
E questo perché, ormai, la presenza di coloni israeliani in Cisgiordania è divenuta talmente massiccia da rendere sempre più difficile una soluzione di questo tipo.
Tra l’altro, anche lo stesso Governo israeliano sembrerebbe mancare della forza necessaria per ritirarli, dato che, verosimilmente, opporrebbero una fortissima resistenza.
Certo, poi anche gli stessi palestinesi non aiutano, soprattutto da quando Hamas (che pure aveva, per qualche tempo, lasciato aperta la porta rispetto a tale prospettiva) ha scelto con il brutale attacco del 7 ottobre di abbracciare la strada della totale contrapposizione dimostrandosi un nemico più che un interlocutore.
A livello più generale, sarà però fondamentale comprendere fino a che punto le autorità palestinesi avranno la forza di trattare tale tematica dopo la fine del conflitto.
Ma se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) istituisse un governo a Gaza, seguendo più o meno quelli che sembrerebbero essere i desiderata di Stati Uniti e Israele, potrebbe essere una soluzione?
È difficile dire se la maggior parte dei palestinesi, sia all’interno della Striscia di Gaza sia in Cisgiordania, sostenga Hamas. Quello che è più certo è che l’Autorità palestinese non gode affatto di fiducia. Perciò, qualora questo accadesse, sarebbe comunque fondamentale capire cosa gli israeliani sarebbero disposti a concedere all’ANP al fine di permetterle di guadagnare consenso in seno alla popolazione.
Quale ruolo potrebbero svolgere i vari attori internazionali al fine di gestire l’attuale crisi?
Difficile che Israele accetti il controllo di attori terzi all’interno della Striscia.
Ma qualora ciò avvenisse, anche in questo caso la domanda fondamentale dovrebbe riguardare il futuro dell’entità politica palestinese.
Cosa sarà? Sarà indipendente? Potrà concludere accordi commerciali con Stati terzi?
Onestamente trovo difficile che Israele acconsenta a tale soluzione, specie dopo il 7 ottobre.
In teoria, gli unici in grado di imporgli qualcosa sarebbero gli USA, ma è difficile che lo facciano, anche in ragione della vicinanza ad Israele mostrata da diversi gruppi ed esponenti dei due partiti del Congresso (in primis quello repubblicano).
Quanto alle Nazioni Unite, invece, negli ultimi anni i rapporti tra Israele e l’Organizzazione sono divenuti talmente tesi da rendere assolutamente improbabile un suo intervento diretto.
E la diplomazia vaticana invece? Quale ruolo potrebbe avere?
Riguardo alla posizione del Vaticano ho letto e trovato molto interessante la lettera aperta con cui Papa Francesco ha, da un lato, condannato inequivocabilmente l’attacco di Hamas e, dall’altro, messo in risalto la violenza estrema utilizzata da Israele nei confronti di Gaza.
Il Vaticano ha, poi, parlato molto spesso dei diritti dei palestinesi e della necessità che abbiano un proprio Stato.
Il problema è, che in questo, la Chiesa sembrerebbe essere molto poco sostenuta.
Parlando, invece, di Storia, quali sono i principali errori del passato a causa dei quali in Medio Oriente appare, oggi, in questa situazione?
Beh, certamente Francia e Gran Bretagna hanno commesso molti errori nel periodo immediatamente successivo alla fine del Primo conflitto mondiale, non solo in Palestina ma anche in Sira, in Iraq e nel resto della regione.
In tale contesto, la Gran Bretagna assunse, poi, il ruolo di sostenitrice del Movimento Sionista, appoggiando le legittime aspirazioni i nazionali del popolo ebraico.
Il problema è dato, però, dal fatto che le ugualmente legittime aspirazioni palestinesi non vennero minimamente sostenute.
E questo nonostante la Commissione King-Crane (costituita nel 1919 dalla Società delle Nazioni al fine di consultare i vari attori presenti negli ex possedimenti ottomani) ritenesse un errore supportare il progetto sionista per via della presenza, in Palestina, di una popolazione di etnia araba caratterizzata da una forte identità.
Poi, come sappiamo, le cose sono andate avanti e oggi ci ritroviamo, da un lato, con un solido Stato d’Israele, che è certamente legittimo, e, dall’altro, con una popolazione, quella palestinese, totalmente priva di garanzie rispetto alle sue aspirazioni nazionali.
In ragione di ciò, quantunque le brutali violenze di Hamas vadano condannate e non vadano in nessun modo giustificate, uno dei punti fondamentali per comprendere quanto accaduto resta proprio l’occupazione militare israeliana e l’assenza di una statualità palestinese.
Cosa rende piuttosto difficile immaginare una fine del conflitto anche nel caso in cui venissero posti in essere piani di aiuti economici o missioni di peacekeeping.
Poi, certo, esiste anche l’ipotesi un unico Stato bi-nazionale, ma tale percorso appare forse anche più complicato.
A suo parere lo Stato palestinese dovrebbe, quindi, sorgere in Cisgiordania?
Certamente, inclusa Gerusalemme Est. Ma dovrebbe anche comprendere la Striscia di Gaza, dal momento che si tratta di un unico territorio palestinese occupato da Israele nel 1967. Si tratta della proposta fatta dall’OLP già nel 1988, quando proclamò la nascita dello Stato della Palestina.
Ma Israele non sembra essere interessato e neppure lo è Hamas, la cui disponibilità ad un compromesso lungo le linee del 1967 previsto dalla Carta del 2017 sembra superata dal terribile attacco terroristico del 7 ottobre.
In effetti, l’unica cosa che si potrebbe fare, sempre qualora Israele accettasse (ricordiamo quanto detto prima) sarebbe quella di lanciare un’operazione a livello di Nazioni Unite che protegga sia i palestinesi che gli israeliani.
L’ipotesi che circola attualmente riguardo a Gaza è quella secondo cui dovrebbe essere ricostruita da europei e americani, mentre l’Egitto offrirebbe rifugio a circa un milione e mezzo di palestinesi. Il tutto al fine di ripristinare una situazione simile a quella precedente ma senza di Hamas, che certamente rappresenta il nocciolo del problema. Ovviamente, però, al fine di giungere a tale risultato potrebbe anche servire una missione di paecekeeping dotata di adeguate regole d’ingaggio, molto diverse da quelle che caratterizzano la missione UNIFIL?
L’ipotesi dell’espulsione – perché non trovo altre parole per definire il trasferimento di un milione di palestinesi da Gaza all’Egitto – rimanda per molti aspetti a quanto accaduto nel 1948, e perciò mi sembra del tutto irrealizzabile: i palestinesi non accetterebbero mai questa soluzione e non credo che l’Egitto abbia alcun interesse a farlo.
Nonostante le Nazioni Unite non siano la panacea per la risoluzione della crisi, è da auspicare un loro intervento di interposizione. Concordo con lei nel ritenere che UNIFIL non abbia né la forza, né il necessario mandato per provvedere ad un disarmo di Hezbollah.
Pertanto, l’eventuale missione di interposizione a Gaza dovrebbe avere un mandato molto più forte. Resta chiaramente l’opposizione israeliana, il che rende tutto questo purtroppo poco realistico.
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