Napoli. La disoccupazione giovanile risulta alta non solo nella sponda Sud, ma anche nella sponda Nord del Mediterraneo, con quattro Paesi che nel 2015 raggiungono livelli superiori al 45%: Bosnia-Erzegovina (66,9%), Libia (50%), Spagna (49,4%) e Grecia (49,2%). Lo evidenziano Salvatore Capasso e Yolanda Pena-Boquete nel loro capitolo dell’edizione 2017 del Rapporto sulle economie del Mediterraneo dell’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo a cura di Eugenia Ferragina dell’ISSM-CNR, edito dal Mulino, che sarà presentato, domani a Napoli presso il Polo umanistico del CNR.
La partecipazione femminile resta estremamente bassa nei Paesi arabi del Mediterraneo. Oltre che rappresentare un ovvio problema sociale, la disoccupazione giovanile e femminile pone una questione seria di inefficiente allocazione delle risorse.
La partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Nord Africa è oggetto anche del contributo di Ersilia Francesca e Renata Pepicelli, che spiegano come “nonostante l’abbassamento dei tassi di fertilità ed i progressi in termini di scolarizzazione” rimanga “significativamente più bassa rispetto ad altre aree in via di sviluppo. Il tasso medio della disoccupazione femminile nel Nord Africa nel 2015 era del 20,4%, più del doppio di quello dell’Unione europea che nel 2015 era al 9,5% (fonte ILO 2015).
Le rivolte del 2011 hanno visto uno spiccato protagonismo di giovani e di donne, ma la fase di transizione ha disatteso in gran parte le loro aspettative ed aspirazioni.
Il problema si allargherà in prospettiva, come evidenzia Barbara Zagaglia, in Algeria, Marocco e Tunisia che “sotto l’ipotesi di un incremento continuo della speranza di vita, vedranno aumentare la popolazione in età lavorativa tra il 2015 e il 2030″.
“Solo per mantenere costanti i già bassi tassi di occupazione – spiegano ancora i ricercatori del CNR -, l’Algeria dovrà aggiungere ogni anno dai 126 mila ai 231 mila nuovi posti di lavoro, il Marocco dai 121 mila ai 133 mila, la Tunisia dai 281 mila ai 392 mila. Se questi obiettivi non saranno soddisfatti la strada della migrazione sarà assicurata”.
I movimenti migratori si intrecciano peraltro con il dato secondo cui tra il 2008 e il 2015 in Italia, Spagna, Portogallo e Grecia “al tramonto della lunga e intensa crisi economica, i tassi di occupazione degli stranieri sono sensibilmente diminuiti dagli 8 ai 17 punti percentuali”, come osservano Corrado Bonifazi e Salvatore Strozza. Mentre la disoccupazione degli stranieri ha assunto dimensioni notevoli: oltre il 16% in Italia, ma più del 30% in Grecia e in Spagna.
Francesco Carchedi e Michele Colucci hanno, inoltre, tracciato un quadro storico, sottolineando che “non sono solo gli Stati nazionali a pianificare politiche migratorie, ma occorre guardare anche alle organizzazioni internazionali, alle organizzazioni non governative, a quelle criminali”.
Il legame tra politiche migratorie e sviluppo, in particolare in Nord Africa e nel Sahel, è l’oggetto del capitolo di Marco Zupi, secondo il quale “la priorità dell’Ue si è focalizzata sulle migrazioni ed il loro contenimento, a scapito di sviluppo sostenibile e inclusivo”, mentre sarebbe necessario “un sistema di governance multi-livello e di politiche territoriali”.
Mentre Giorgia Giovannetti, Mauro Lanati ed Alessandra Venturini nel loro capitolo si soffermano sulla migrazione dei lavoratori più qualificati (la cosiddetta fuga di cervelli o brain drain), rilevando come favorisca “la crescita delle esportazioni di prodotti a più alto contenuto tecnologico”.
Nel capitolo di Roberto Aliboni vengono toccati i punti nevralgici della crisi in atto nel Mediterraneo durante il 2016, quali “l’indebolimento a livello regionale dei Paesi arabi “moderati”, il riflusso del jihadismo, il rafforzamento dell’Iran e dei suoi alleati, il protagonismo della Turchia e il ruolo sempre più egemone e pervasivo della Russia”.
Il capitolo di Desirée Quagliarotti identifica le prospettive dell’economia verde dei Paesi nella regione euromediterranea, che “devono cominciare a pensare in termini di un approccio sistemico e integrato che sappia puntare sull’innovazione, su un uso efficiente delle risorse e sulla diffusione della conoscenza. Tutti fattori che potrebbero contribuire alla crescita, alla coesione sociale e all’incremento dell’occupazione”.
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