Myanmar: il terremoto apre un velo su una realtà geoeconomica fragile ma cruciale. Il ruolo del Paese nella filiera globale delle terre rare

NAYPYIDAW (Myanmar). Il terremoto che ha colpito Myanmar, nei giorni scorsi, non è stato solo un evento naturale devastante, con un bilancio di vite umane che continua a crescere e infrastrutture ridotte in macerie.

La cartina del Myanmar

 

Ha anche squarciato il velo su una realtà geoeconomica tanto fragile quanto cruciale: il ruolo del Myanmar nella filiera globale delle terre rare, quei minerali indispensabili per la tecnologia moderna, dai semiconduttori alle batterie per veicoli elettrici, fino ai sistemi d’arma avanzati.

La scossa, con epicentro vicino a Mandalay, a circa 425 chilometri dalle miniere di Kachin, ha messo in luce la vulnerabilità di un sistema produttivo già provato da instabilità politica e ha riacceso il dibattito sulle implicazioni economiche e strategiche di questa dipendenza globale da un Paese in bilico.

Un nodo critico nella catena globale

Il Myanmar non è un attore marginale nel mercato delle terre rare.

È uno dei principali fornitori mondiali, in particolare di elementi pesanti come il disprosio e il terbio, essenziali per magneti ad alta resistenza usati in turbine eoliche e motori elettrici.

La sua posizione geoeconomica è rafforzata dalla vicinanza con la Cina, che importa circa la metà delle sue terre rare pesanti proprio dal Myanmar, integrandole in una filiera che domina a livello globale.

Questo legame sino-birmano non è casuale: Pechino ha investito anni per consolidare il controllo su queste risorse, sfruttando la porosità dei confini e la debolezza strutturale di un Myanmar frammentato da conflitti interni e governance precaria.

Il terremoto, pur non avendo colpito direttamente le miniere di Kachin, ha amplificato un senso di incertezza che già gravava sul settore.

Prima della catastrofe naturale, il conflitto politico aveva fatto il grosso del danno.

Un’immagine del terremoto ha colpito Myanmar

 

L’ottobre 2024 ha segnato un punto di svolta, con l’Esercito indipendentista Kachin (KIA) che ha conquistato centri minerari strategici come Kanpaiti, vicino al confine cinese.

Le operazioni si sono fermate, e a febbraio 2025 le esportazioni verso la Cina erano crollate dell’89%.

Il sisma, in questo contesto, diventa un moltiplicatore di crisi, un evento che non distrugge fisicamente le miniere ma ne compromette ulteriormente la stabilità operativa, logistica e politica.

La scossa geopolitica dei dazi americani

A complicare il quadro intervengono le scelte di politica economica degli Esercito indipendentista Kachin (KIA) .

Il 2 aprile scorso, l’Amministrazione Trump ha varato una nuova raffica di dazi: il 10% su tutti i partner commerciali, con un picco del 54% sulle merci cinesi, incluse le terre rare.

Il Presidente Usa, Donald Trump

 

Una mossa che riflette la volontà di Washington di ridurre la dipendenza dalla Cina, ma che rischia di generare effetti a cascata imprevedibili.

La Cina, che controlla oltre l’80% della raffinazione globale di questi minerali, potrebbe rispondere restringendo l’export o alzando i prezzi, colpendo duramente le industrie occidentali già alle prese con una supply chain sotto stress.

Il Myanmar, in questo gioco di specchi, diventa un ago della bilancia.

Se da un lato il terremoto e l’instabilità politica ne minano la capacità produttiva, dall’altro la pressione americana potrebbe spingere Pechino a cercare di stabilizzare la situazione birmana, magari con un intervento economico o diplomatico più deciso. Ma qui si apre un paradosso:

il Governo militare di Naypyidaw, indebolito dalla guerra civile e ora dal disastro naturale, è un partner sempre meno affidabile.

I gruppi ribelli, come il KIA, controllano territori chiave e potrebbero diventare interlocutori alternativi, ma la loro frammentazione e i loro interessi locali rendono difficile un dialogo strutturato.

Un Risiko geoeconomico

L’impatto del terremoto sulle terre rare va oltre il Myanmar e si riflette su scala globale.

L’indice MMI delle terre rare, che ne monitora le quotazioni, ha registrato un lieve aumento dell’1,82%, ma gli analisti prevedono una volatilità ben più marcata nei prossimi mesi.

Le aziende americane, spaventate dall’incertezza, stanno correndo ai ripari, cercando fonti alternative in Australia, Canada o persino in progetti domestici ancora in fase embrionale.

Il Governo statunitense, dal canto suo, accelera gli investimenti nella produzione interna, ma i tempi tecnici per rendere operative nuove miniere sono lunghi, e il gap con la domanda rischia di allargarsi.

Nel frattempo, l’Europa osserva con preoccupazione.

L’Unione Europea, che dipende quasi interamente dalle importazioni per le sue terre rare, si trova in una posizione di debolezza strutturale.

La transizione verde, con i suoi ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione, poggia su questi minerali, e qualsiasi disruption nella filiera birmana o cinese potrebbe rallentare la produzione di batterie e turbine.

Alcuni Stati membri spingono per una strategia più autonoma, ma l’assenza di una visione comune e le difficoltà nel reperire risorse interne lasciano Bruxelles in balia degli eventi.

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