Di Fabrizio Scarinci
EREVAN. L’operazione militare lanciata martedì scorso dal governo azero contro i ribelli del Nagorno Karabakh verrà sicuramente ricordata come una delle più brevi della Storia.
A poco più di ventiquattr’ore dal suo inizio, infatti, i gruppi armati di etnia armena operanti nell’area avrebbero accettato di deporre le armi e di sedersi al tavolo delle trattative, dove, stando a quanto dichiarato da alcuni esponenti del governo di Baku, si sarebbe cominciato a discutere dello status della regione e dei diritti dei suoi abitanti nell’ambito di quanto previsto dalla Costituzione azera.
Nel frattempo, le forze terrestri di Baku si sarebbero dirette verso la città Stepanakert (ovvero la capitale del Nagorno Karabakh), in cui avrebbero fatto il loro ingresso nella giornata di sabato.
La riconquista della regione da parte dell’Azerbaijan (che questa volta potrebbe davvero essere definitiva), arriva dopo decenni di aspri scontri (diretti e indiretti) con la vicina Armenia, che, a seguito della sanguinosa guerra occorsa tra i due Paesi tra il 1991 e il 1994, si era impadronita non solo del Nagorno Karabakh ma anche di tutte la aree circostanti necessarie a connetterlo con il proprio territorio.
Dopo il 1994, il conflitto tra due Paesi sarebbe proseguito a singhiozzo, con diverse violazioni del cessate il fuoco e alcuni piccoli scontri, come quello che, nell’aprile del 2016, avrebbe permesso a Baku di riprendere alcune piccole aree settentrionali e orientali della regione contesa.
Tutto questo fino a quando, nell’estate del 2020, gli azeri non avrebbero lanciato una poderosa offensiva che li avrebbe portati a riconquistare tutti i territori posti tra l’Armenia e il Nagorno Karabakh, che sarebbe, a quel punto, rimasto isolato fino all’ultimo attacco dei giorni scorsi.
Non diversamente da quanto accaduto nell’ambito di altri conflitti tra piccoli Stati, anche l’annosa contesa tra Armenia e Azerbaijan risulta essere parte di un confronto più ampio tra potenze di rango superiore.
Nel caso in questione si tratta della Russia, storico alleato/protettore di Erevan, e della Turchia, che si configura come il partner più importante di Baku.
Com’è noto, questi due competitor alternano da tempo scontro e dialogo al fine di rafforzare e, quando possibile, ampliare le rispettive sfere d’influenza nell’ambito della vasta regione compresa tra Africa settentrionale, Mediterraneo e Asia Centrale.
In tale contesto, Ankara sembrerebbe vedere nell’Azerbaijan, Paese etnicamente e culturalmente affine, un fondamentale trampolino di lancio verso gli altri popoli di “stirpe” turca situati al di là del Mar Caspio, mentre Mosca, che pure non è in cattivi rapporti con Baku, sembrerebbe volersi servire di Erevan allo scopo di contrastare tale progetto e di recuperare la propria preminenza nel Caucaso (cosa particolarmente utile anche al fine di prevenire nuove tentazioni secessionistiche da parte di ceceni e daghestani).
A partire dal 2018, però, i rapporti tra Russia e Armenia avrebbero gradualmente cominciato a deteriorarsi.
In seguito alla cosiddetta “Rivoluzione di Velluto”, infatti, i governi guidati dal Primo Ministro Nikol Pashinyan, ufficialmente sostenitore dei valori democratici occidentali, avrebbero scelto una posizione decisamente meno filo-russa rispetto ai precedenti esecutivi.
Naturalmente, essi si sarebbero ben guardati (soprattutto all’inizio) dal provocare una rottura totale; anche perché, considerando la presenza di installazioni militari russe in territorio armeno, si sarebbe trattato di un vero e proprio suicidio.
Ma la proclamata volontà di Erevan di continuare a coltivare stratte relazioni con la NATO e l’Unione Europea pur avendo aderito all’Unione Eurasiatica e alla CSTO (un’alleanza militare tra la Federazione Russa e altri cinque Paesi dell’ex Unione Sovietica) sarebbe comunque stata sufficiente ad irritare i vertici del Cremlino, che, in occasione dell’offensiva azera del 2020, sembrerebbero aver voluto mettere in difficoltà l’esecutivo di Pashinyan rifiutando di farsi coinvolgere nel conflitto e dichiarando che un eventuale intervento russo avrebbe avuto luogo solo nel caso in cui gli scontri fossero arrivati in territorio armeno (che Mosca avrebbe, ovviamente, preferito non lasciare in balia dei progetti turco-azeri).
In tal modo, gli armeni, avrebbero perso la guerra e, con essa il controllo di tutti i territori che la connettevano al Nagorno Karabakh.
L’unica via di collegamento rimasta da quel momento in avanti sarebbe stata, infatti, costituita dal solo “corridoio di Lachin”, un’esigua porzione di territorio controllata da pacekeeper russi rispetto ai quali Erevan avrebbe più volte mostrato di non avere troppa fiducia.
Come ogni sconfitta che si rispetti, anche la disfatta armena del 2020 sarebbe stata caratterizzata da un feroce strascico di polemiche; non ultima quella riguardante la palese inefficacia dello strumento militare del Paese rispetto a quello messo in campo dagli azeri, che, nel corso degli scontri, avrebbero fatto uso di innovative munizioni circuitanti e di altre tipologie di armamenti avanzati.
Nell’ambito di tali polemiche, nel febbraio 2021 il Premier Pashinyan avrebbe perfino espresso dei dubbi sulle capacità di funzionamento dei missili Iskander 9k720 forniti dai russi, che, a suo parere si sarebbero mostrati del tutto inefficaci durante le operazioni.
Tali dichiarazioni avrebbero finito per mettergli contro lo Stato Maggiore delle Forze Armate, con cui sarebbe nata una crisi conclusasi (almeno in quel momento) con le sue dimissioni e la sua successiva rielezione.
Con lo scoppio del conflitto ucraino, il governo di Pashinyan avrebbe, quindi, cercato di approfittare della momentanea “distrazione” di Mosca per continuare con il suo slittamento verso posizioni politiche maggiormente filo-occidentali.
In ragione di questo suo nuovo orientamento strategico, Erevan si sarebbe dapprima rifiutata di ospitare un’attività addestrativa della CSTO prevista sul suo territorio nel gennaio di quest’anno, per poi arrivare, all’inizio di settembre, a ritirare il proprio ambasciatore dall’organizzazione e a condurre con gli USA un’esercitazione militare congiunta denominata “Eagle Partner”.
Comprendendo la situazione, nel mese di luglio Mosca avrebbe iniziato a spingere perché Armenia e Azerbaijan firmassero un definitivo Trattato di pace sotto i suoi auspici.
Concepita, verosimilmente, anche al fine di riottenere un certo grado di credibilità come potenza capace di favorire la stabilità del suo “estero vicino”, tale mossa si sarebbe, tuttavia, risolta in un umiliante fallimento diplomatico, con gli azeri che avrebbero accusato il governo russo di inadempienza rispetto a taluni obblighi connessi alla cessazione degli scontri del 2020 e gli armeni che avrebbero sminuito le dichiarazioni del Ministero degli Esteri di Mosca sostenendo di non aver ricevuto nessun invito ufficiale per discutere la questione; segno evidente di quanto fossero scarsamente considerati dal loro maggiore partner e dall’alleanza con cui, presto, sarebbero arrivati alla rottura.
In concomitanza con ritiro dell’ambasciatore dalla CSTO, infatti, il Primo Ministro avrebbe pubblicamente confermato l’intenzione del suo governo di raggiungere accordi più concreti con la NATO e l’Unione Europea riguardo alla sicurezza del Paese, sottolineando come il fatto di affidarsi esclusivamente alla Russia al fine di garantire l’integrità territoriale armena fosse stato un gravissimo errore strategico.
Sempre in quei giorni, inoltre, Erevan avrebbe deciso di sottoporre una volta per tutte al vaglio del suo Parlamento la ratifica dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale; una mossa pensata da tempo al fine di portare a processo i militari e i dirigenti azeri che avessero commesso gravi crimini contro la popolazione civile armena ma che, allo stato dei fatti, avrebbe anche reso Vladimir Putin un ricercato all’interno dei confini del Paese.
Insieme allo svolgimento dell’esercitazione Eagle Partner e alla partecipazione della moglie del Primo Ministro, Anna Hakobyan, alla terza edizione del “Summit of First Ladies and Gentlemen” di Kiev, tale decisione avrebbe definitivamente fatto esplodere la rabbia del Cremlino, dove ci si era ormai resi conto di essere sul punto di perdere il piccolo ma strategicamente importante alleato caucasico.
Proprio nel mezzo di questa crisi bilaterale tra Russia e Armenia sarebbe arrivato, forse anche in maniera “opportunistica”, l’ultimo attacco da parte degli azeri, che Mosca, similmente a quanto accaduto nel 2020, non avrebbe ostacolato in nessun modo, determinando la quasi immediata resa dei ribelli filo-armeni.
Alla luce della situazione appena descritta, cosa potrebbe accadere nel prossimo futuro è ancora tutto da vedere.
Di certo, se riuscisse a superare indenne l’attuale momento di confusione, il governo di Nikol Pashinyan non rinuncerebbe troppo facilmente alla sua politica di allineamento nei confronti dell’Occidente, da cui spera di ottenere protezione emancipandosi, al contempo, dal duro vassallaggio che, normalmente, il Cremlino impone ai propri alleati.
In tale contesto, non è neppure da escludersi che Erevan non ambisca, sempre tramite l’Occidente, a normalizzare le proprie relazioni con la Turchia; un obiettivo piuttosto complicato (ricordiamo la costante negazione del genicidio del secolo scorso e, non da ultimo, il considerevole supporto fornito da Ankara alle forze di Baku) che Pashinyan si sarebbe, però, più volte augurato di poter conseguire.
Quanto a Mosca, invece, malgrado la propria presenza in territorio armeno, l’ipotesi che essa stia progettando di “recuperare” il suo alleato attraverso un intervento di tipo militare appare, almeno per il momento, abbastanza inverosimile, soprattutto in ragione del suo considerevole impegno sul fronte ucraino.
Di conseguenza, la cosa, al momento, più probabile è che il Cremlino cerchi di dividere il Paese facendo leva sui fortissimi rapporti economici bilaterali e su qualche intelligente tentativo di propagare una qualche forma di narrativa politico-identitaria incentrata sugli antichi legami di carattere storico, culturale e religioso esistenti tra il popolo russo e quello armeno (operazione, quest’ultima, a cui potrebbero anche accompagnarsi alcune particolari azioni miranti a destabilizzare questo e ogni altro esecutivo locale che dovesse rivelarsi ostile rispetto alla strategia dei vertici moscoviti).
Naturalmente, per i russi, tale sfida risulterà più o meno complicata a seconda del grado di impegno che l’Occidente, di gran lunga superiore sia in fatto di hard power che di soft power, deciderà di profondere con riferimento all’integrazione dell’Armenia nell’ambito del proprio sistema di Alleanze.
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